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2 luglio 1461 – Nidastore, l’ultima grande vittoria di Sigismondo


2 Luglio 2023 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Guidate dai condottieri Ludovico Malvezzi di Bologna e Pier Paolo Nardini di Forlì, le truppe pontificie inviate da Papa Pio II, con 3000 cavalli e 2000 fanti, invadono le terre malatestiane nella Marca. Prendono la valle del Cesano e si accamparono ai margini del vicariato di Mondavio, nel piano sotto il castello di Nidastore.

Nidastore

Nidastore

Ma il 2 luglio 1461, nella battaglia di Castelleone di Suasa, Sigismondo ottiene una straordinaria vittoria contro un esercito che schiera il triplo dei suoi effettivi. È il suo canto del cigno, dopo di allora saranno solo sconfitte e umiliazioni. Ma quell’ultimo giorno di gloria merita di essere ricordato; lo faremo seguendo il racconto di Gaspare Broglio, segretario e consigliere del Signore di Rimini.

Castelleone di Suasa nella veduta di Francesco Mingucci (1626)

Castelleone di Suasa nella veduta di Francesco Mingucci (1626)

Prima della battaglia, Sigismondo convoca i suoi comandanti e i capi-squadra. Racconta loro che la sera prima «un’aquila gentile» si è posata in cima al suo padiglione. Non c’è bisogno di spiegare a un uomo d’arme del ‘400 – e tanto meno a uno della cerchia del Malatesta – cosa significhi un fatto simile: così accadeva così ai condottieri romani destinati alla vittoria. E Sigismondo è o no discendente di Scipione l’Africano? Non serve altro. Sigismondo scioglie così il consiglio di guerra: «Al nome del beato San Giorgio ognuno ritorni alle sue squadre, segnando li ordini dati».

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Chi erano questi uomini? C’era Bernardo da Reggio, comandante degli “scaramucciatori”; Nicola di Benzo, Giovanni di Toma, Palo da Viterbo, Sovardino da Bressa, erano comandanti di squadra; di Cecco Brandolino, Simone Malaspina, Petraccio da Santarcangelo, Cola Coglionese, Nicoletto da Canosa, si sa che erano “comandanti” ma non è chiaro di cosa. Vengono citati anche i fratelli Cristofano e Agnolo da Roma, Piero della Bella, il conte Roberto da Montevecchio, Angnarino d’Angnara, Scialaqua, Martiotto d’Arezzo, Benedetto Albanese, Galecto “figlio del gagliardo Sbardellato da Cerreto”.

E poi c’è il figlio di Sigismondo, Roberto«al quale lo excelso suo patre li aveva dato el governo di un bono squatrone». Roberto ha 21 anni ed è già un combattente provato.

Il piano: avvicinarsi al campo nemico, sorprenderlo con gli “scaramucciatori” di Bernardo, mentre il conte di Montevecchio avrebbe manovrato per l’aggiramento e poi sarebbe intervenuto assieme ai fratelli dell’Agnolo e Piero della Bella «quando li saccomanni – gli addetti alle salmerie – del campo della Chiesa fossero andati a saccomanno», cioè si sarebbero dovuti allontanare dal campo per procurarsi provviste. Ma uno contro tre! Una noce dura da rompere. La regola aurea dice (anche ai giorni nostri) che un attacco può riuscire solo quando le cose stanno esattamente all’opposto, tre contro uno. Sigismondo aveva prevenuto così l’obiezione: «Se voi diceste, do! Sigismondo, loro sono più gente assai di noi, come ne mettemo a tal partito? Rispondovi, per le dicte cagioni che v’assegnerò».

Ed eccole, le «cagioni» di Sigismondo, che si riassumono poi in una sola: «Noi semo più homini, e avete facte alli vostri dì più cose di riputazione di loro». Loro, gente raccogliticcia; noi, sempre insieme e gloriosi da tanti anni, senza mai abbandonarci. La “forza del gruppo”, direbbe un allenatore di oggi.

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Si va all’assalto. Partono gli scaramucciatori «non troppo però con furia», tanto per saggiare la reazione. Che però è immediata: squilla l’allarme nel campo nemico e in un attimo sono già tutti a cavallo. Sorpresa fallita. Gli ecclesiastici escono dal campo e fronteggiano bravamente l’assalto.

Ma Sigismondo non si perde d’animo. Manda rinforzi e riesce a respingere il nemico entro il suo campo «con morte di molti homini e cavalli dall’una parte e l’altra».

Gli ecclesiastici si ammassano sulla difensiva. Sigismondo urla: «Artiglieria!». Le sbarre del campo trincerato nemico saltano in aria, i “pandolfeschi” irrompono nelle brecce aperte dai colpi di spingarda. Uno dei due comandanti, Pier Paolo Nardini da Forlì «conductieri valentissimo di quelli della Chiesa» cade trafitto da un colpo di spada.

Stemma dei Nardini

Stemma dei Nardini

Ma le truppe malatestiane, assalto dopo assalto, non riescono a sfondare. Sigismondo chiama Roberto. In un drammatico colloquio, annuncia al figlio di essere determinato a entrare di persona nel campo nemico: «O vi morrò, o avremo la victoria». E gli ordina di attaccare con il suo squadrone e un’altra squadra i padiglioni nemici, «virilmente, senza alcun tema».

E così è. Sigismondo «con tanta ferocità che saria impossibile a narrarlo, inanimando li suoi valenti homini che menava con seco e i suoi provisionati», travolge la linea difensiva della Chiesa.

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Ma Sigismondo viene ferito. Una volta, una seconda. Non importa: «tanto più infiammato, riscaldato come un orso scanneggiato, facendo cose mirabili di sua persona», il Malatesta conquista il campo. Non gli sono da meno «Galecto di Sbardellato da Cerreto, Nicolecto, Christofano, Giacomo Panzuto» e tutti gli altri. Mentre Roberto «per la sua grande animositade tucti li mise in rocta diprendando tucti li alloggiamenti». 

La strage finisce solo con il tramonto. «Si morirono homini e cavalli assai, e furono espontati li ecclesiastici e in fine furono rocti e fracassati». Il Malvezzi si ritrova con un terzo dell’esercito in meno, fra morti, feriti, prigionieri e sbandati, senza contare che l’altro comandante è caduto sul campo.

Perduti quasi tutti i carriaggi e più di 1.500 cavalli. In mano al nemico perfino la bandiera del Papa Pio II, che i “pandolfeschi” gettano ai piedi di Sigismondo in segno di trionfo. Sì, è proprio lui l’ultimo discendente degli Scipioni.

Il Trionfo di Scipione nell’Arca degli Antenati e dei Discendenti nel Tempio Malatestiano

Il Trionfo di Scipione nell’Arca degli Antenati e dei Discendenti nel Tempio Malatestiano

(Le illustrazioni sono tratte dalle miniature di Giovanni da Fano per l’Hesperis di Basinio da Parma)