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7 gennaio – “I t’ha fat la piadeina, eh?”


7 Gennaio 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Il 7 gennaio la Chiesa celebra San Raimondo de Penafort (Santa Margarida i els Monjos, 1175 – Barcellona, 6 gennaio 1275), predicatore domenicano che si era formato all’Università di Bologna. Qui aveva insegnato diritto, per poi conoscere e seguire il fondatore dell’Ordine, San Domenico di Guzmàn in persona. Morì centenario nella sua Catalogna dopo aver cercato per tutta vita di convertire gli eretici e gli Ebrei, non attraverso repressioni violente ma operando sul piano dottrinale.

Sen Reimond era ben conosciuto dalle nostre parti, avendo i Domenicani a Rimini un grande convento, con una chiesa consacrata a San Cataldo. Insieme agli Agostiniani, costituivano il maggior polo culturale della città. A San Cataldo avrebbe tenuto lezione perfino S. Tommaso d’Aquino, il più grande teologo del medio evo e uno dei maggiori di tutti i tempi. Nel convento, secondo Vasari, c’erano anche affreschi di Giotto. Di tutto ciò non resta la minima traccia e ormai si stenta anche a individuare l’area in cui sorgeva il grande complesso, raso al suolo alla fine dell’Ottocento, fra le vie Gambalunga, Oberdan e Roma.

Ai Domenicani era di solito affidato il tribunale dell’Inquisizione, che poco dopo la morte di Sen Reimond iniziò ad operare anche a Rimini, anche se qui fu tradizionalmente presieduto da un francescano.

Contrariamente a quanto narrato da molta letteratura e da quasi tutto il cinema, nel medioevo l’Inquisizione non scatenò alcuna caccia alle streghe. Anzi, i roghi di quelle sventurate durante i cosiddetti “secoli bui” furono rarissimi. Accadde semmai nei “luminosi” anni dell’età moderna, dal ‘500 a ‘700, e soprattutto nei paesi protestanti, comprese le colonie anglosassoni nel Nuovo Mondo, con una ferocia incomparabile a quella degli stati cattolici.

A Rimini e dintorni, eretici che dovevano vedersela con Domenicani e Francescani ce n’erano stati in sovrabbondanza e i “miracoli di S. Antonio” sono lì a testimoniarlo. Invece per il medio evo mancano del tutto memorie di processi o tanto meno roghi di streghe.

Eppure le streghe c’erano, eccome. O almeno il popolo ne era assolutamente certo, come provano le decine di proverbi e scongiuri che le riguardano.

Umberto Foschi alla fine dell’800 raccolse quelli dell’area di Cesena, ma pronunciati tali e quali in tutta la Romagna, ciascuno nel suo dialetto.

“La striga quând la v’ha tuché, a si bela che strighé”, la strega quando vi ha toccato siete bell’e stregato.

Però, “Al strig an pò strighé, se un làssit i ni ha lassé”, le streghe non possono stregare se non è stato lasciato loro un lascito. “Il lascito – spiega Bagli – era trasmesso dalla strega morente tramite un paio di forbici che consegnava a una donna prescelta come erede. Se non c’era nessuna disposta ad accettare, la strega non poteva morire a meno che per liberarla dalla una e dolorosa agonia, non si decidesse di scoperchiare il tetto sopra la camera della moribonda”. 

Da cui il detto, “Ma quel chi l’è j ha dvù verz e’ tett”, a quello gli hanno dovuto aprire il tetto, di un defunto che nessuno rimpiangeva.

Fra gli antidoti alle “maligne”: “Se t’an vu essar strighè, un brev ‘d zera sânta a e’ col t’è da purtè”, se non vuoi essere stregato devi portare al collo un breve di cera benedetta.

Esisteva però una malìa particolarmente pericolosa, la Pedga tajèa, o tajè, la pèdica tagliata.

“La striga, quând la pèdga l’av ha livé, av murì che an putì sbagliè. Se la striga la pèdga l’av liva, av murì che han sbagliè miga”, Quando la strega vi ha levato la pèdica morite che non potete sbagliare. Se la strega vi leva la pèdica, morite che non sbagliate affatto.

Così la illustrava Gianni Quondamatteo: “La pèdica (pedata, orma) tagliata è esercitata dall’ammaliatore che seguendo per strada la vittima leva tanta terra quanto porta l’orma di questa, la ripone in un sacchetto e la colloca sotto il camino, ingenerando così una malattia nel predestinato”.

Meno male che l’autore riminese ci svela anche qui l’antidoto:  “A guarire di questa malìa si chiama uno che abbia ‘la virtò’ (la virtù, cioè nato con la Camisa dla Madona – La Camicia della Madonna, avvolto nel sacco amiotico – o settimo figlio maschio), il quale per tre mattine consecutive misura con un filo di lana l’ammaliato a digiuno, gli fa mettere un piede nella cenere o nella sabbia, e quella che resta sotto la pianta del piede la raccoglie e la getta nel fiume, avvolta in una pezzuola, fuggendo. Se sente il rimbombo nell’acqua l’ammalato non guarisce, se non lo sente, il malato risana”.

Non occorre dire che le malìe più praticate erano quelle d’amore, né aggiungere quale ingrediente fosse il principale in Romagna. Sempre Quondamatteo: Fé la piadeina: fare la piadina. Nasce dall’antico modo di preparare – della ragazza per il ragazzo che voleva avvincere a sé – una piadina, fra gli ingredienti della quale era un segno del mestruo. Così all’amico che corre, appena può, dalla sua ragazza, si dice ancora oggi: I t’ha fat la piadeina, eh?“.

(nell’immagine di apertura, “Il sabba” di Francisco Goya, 1795).