Ammettiamolo: tutte le volte (rare, rarissime, ci mancherebbe, e sempre dovute a gravi cause di forza maggiore) che abbiamo deposto i sacchi della spazzatura all’esterno dei cassonetti differenziati anziché aprire le feritoie con l’apposita tessera, ci siamo domandati se c’era la possibilità che qualcuno ci beccasse sul fatto. Il fatto che nell’isola ecologica ci fossero immancabilemente già altri dieci sacchi maleodoranti di vari colori e dimensioni, occultati dietro o in mezzo ai cassonetti, o sfacciatamente sopra, più più diversi cartoni sparsi e un’occasionale padella arrugginita, di solito ci fa pensare che sia facile farla franca. Del resto pochi o nessuno di noi conosce direttamente qualcuno che sia stato multato da Hera per errato o mancato conferimento dei rifiuti, al massimo è successo al solito cugino o vicino di casa di qualcun altro, nel più classico stile della leggenda metropolitana. E così se siamo usciti con tutta la spazzatura di casa ma senza l’indispensabile Carta Smeraldo, l’apriti sesamo di tutti i cassonetti, ci diamo un’occhiata intorno con aria furtiva e molliamo i sacchi nel modo più discreto possibile. Va detto, a parziale giustificazione, che in genere un cassonetto su tre – carta, indifferenziato o plastica-lattine – non funziona, o è bloccato o
I dodici milioni di biglietti staccati in un mese, le lacrime in platea, gli immancabili applausi sui titoli di coda, l’aver messo d’accordo destra e sinistra: già basterebbero queste benemerenze a rendere straordinario il film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani. Personalmente trovo clamoroso un altro primato: da molto tempo non mi capitava di sentire tanto parlare di un film fra le donne normali, in ufficio, al supermercato, nello spogliatoio della palestra, per strada. Le amiche di tutte le età si mettono d’accordo per andarlo a vedere o a rivedere, in gruppo o con i figli, e poi lo commentano e ne discutono nelle loro chat. C’è chi ha portato al cinema la mamma o la nonna e poi si è fatta raccontare il suo personale film in bianco e nero fra le rovine e le speranze del dopoguerra. Chi la mamma o la nonna non ce l’ha più si commuove davanti al grande schermo, immaginandola giovane, trepidante, tenace e fiera come la Delia protagonista del film. Insomma, C’è ancora domani è il film da vedere, possibilmente oggi, come corollario alla giornata contro la violenza sulle donne. Ne vale la pena anche perché è costruito con un’abilità che sfiora il miracolo: riuscire
«È stato il vostro bravo ragazzo». Questo ha scritto sui social Elena Cecchettin, la meravigliosa sorella maggiore della povera Giulia, riempita di botte, sequestrata e gettata in un dirupo dall’ex fidanzato Filippo Turetta, che continuava a manipolarla con il vittimismo come prima aveva fatto con la gelosia. A chi si rivolgeva Elena, di cui in questi giorni abbiamo imparato a conoscere la pacatezza e la maturità? Ai genitori di Filippo, certo, che nelle interviste dei giorni scorsi continuavano a ripetere che il loro figlio – senza amici, misantropo, ossessionato da Giulia - era un bravo ragazzo e non aveva mai dato un pensiero ai genitori. Forse Elena lo rinfacciava anche ai media, quel «bravo ragazzo» ripetuto nei telegiornali e nei talk show e che, lei lo sapeva, era una bugia, perché Filippo da tempo stalkerava e ricattava psicologicamente sua sorella. E Giulia, che era davvero una brava ragazza, troppo brava, provava pena per lui e non aveva tagliato tutti i ponti con il «poverino» che minacciava il suicidio. Ma io credo che il rimprovero fosse anche per tutti quelli che continuano a prendere sul serio il mito del «bravo ragazzo». Dove per tale si intende un maschio caucasico con la faccia pulita,
Martino, il santo che si festeggia in questo weekend, è sempre stato uno dei santi più simpatici del calendario. Non che fosse un pacioccone alla san Filippo Neri, “state buoni se potete”, eccetera, anzi: ha fatto il soldato fino ai quarant’anni, poi è stato missionario, monaco e vescovo, e ai suoi tempi – più o meno quelli del nostro san Gaudenzo, il IV secolo d. C., quando il cristianesimo doveva ancora prevalere sul paganesimo e per di più era diviso al suo interno da molteplici e litigiose eresie, peggio dell’attuale opposizione – non si faceva pregare per distruggere templi di Apollo o statue di Iside. Però l’episodio più famoso della sua vita, quello che ci raccontavano da bambini ed è stato raffigurato da tanti artisti, è suggestivo come una fiaba. Lo riassumo per i pochissimi che non lo conoscono. Martino, soldato originario della Pannonia (oggi Ungheria) è stato inviato nella Gallia del Nord, nella regione di Amiens, dove svolge compiti di polizia e di controllo del territorio, compito non facile, in un’epoca di acuta crisi economica e di rivolte quasi quotidiane. È attratto dal cristianesimo, questa religione che non è più nemmeno tanto nuova e chiede scelte di vita piuttosto drastiche,
Come ci si sente ad abitare in una città dove è avvenuto un delitto di cui parlano tutti i giornali? Il caso di Pierina Paganelli non è un semplice caso di cronaca nera, ma un assassinio misterioso che ha tutte le caratteristiche del poliziesco all’antica, quello di Cluedo o dei romanzi di Agatha Christie, con una sola vittima e una rosa di sospettati che, come scopre il detective, potevano avere tutti un movente nascosto. È il «giallo di Rimini», come lo chiamano i media, che oltre a essere seguito dalla stampa è diventato una specie di rubrica fissa in Chi l’ha visto, che ogni settimana aggiorna il suo pubblico sulle ultime verità (reali o presunte) emerse nelle indagini e sta facendo conoscere a tutta Italia via del Ciclamino e dintorni, insieme ai protagonisti dell’intricata vicenda: Pierina, la 78enne uccisa con 29 coltellate, le figure più inquietanti del suo contesto familiare e i vicini di casa. L’unico che sembra avere un alibi solido è il figlio Giuliano Saponi, vittima di un grave quanto oscuro incidente stradale, che il giorno dell’omicidio era in ospedale, appena uscito dal coma. Sullo sfondo, la comunità dei Testimoni di Geova, di cui faceva parte la povera Pierina insieme
Altro che zucca, per questo Halloween dalle temperature estive sarebbe molto più indicato il cocomero. Sono almeno due settimane che aspettiamo non dico il freddo, ma il freddino, quanto basta per convincerci a fare il cambio degli armadi, continuamente rimandato vista l’inutilità di vestiti pesanti. Niente da fare, il termometro resta incollato sui venti gradi, perfino la pioggia è tiepida, e quando finisce torna l’afa, con contorno di mosche, zanzare e, di notte dell’occasionale grillo. Così abiti e soprabiti restano nel cellofan, appesi nell’anta superiore del guardaroba, impazienti e annoiati come attori che vorrebbero entrare in scena e fare il loro numero, ma l’artista precedente è un gigione e monopolizza il palcoscenico e, anche se il pubblico mostra segni di insofferenza e qua e là si sente già qualche ”buuu”, non vuol saperne di salutare il pubblico e tornare in camerino. C’è qualcuno che sta peggio dei nostri poveri indumenti autunnali che vorrebbero vivere finalmente il loro momento e ancora non possono: i colleghi che stanno da agosto nelle vetrine (giacche, cappotti, pullover) addosso ai manichini, tentando senza risultato di adescare i clienti. Ancora più infelici di loro sono, ovviamente, i negozianti del settore abbigliamento, che tra inflazione ed estate prolungata,
Non temete, non farò la snob. Dedicherò la rubrica di oggi a ciò di cui parlano tutti seriamente – ossia, in base all’esperienza personale e con cognizione di causa, senza ripetendo a pappagallo le affermazioni che qualche algoritmo lascia entrare nella nostra bolla social. Non il macello di Gaza, non la sorte degli ostaggi israeliani, non la manovra al risparmio che lascerà i pronto-soccorso sempre meno pronti e con meno soccorsi, ma la rottura Meloni-Giambruno dopo la diffusione degli imbarazzanti fuorionda del fidanzato a Diario del giorno. E bisogna ringraziare Antonio Ricci, l’eterno burattinaio di Striscia la notizia, oltre che la premier e il suo inqualificabile fidanzato, per averci regalato una benefica parentesi di puro gossip di prima qualità, al livello della famosa telefonata del tampax fra Carlo e Camilla, ancora amanti clandestini, che convinse la defunta regina Elisabetta a concedere il divorzio all’erede e alla principessa Diana. Il parallelo non è fuori luogo, non solo perché anche la notizia della crisi di coppia a palazzo Chigi ha fatto il giro del mondo, ma anche perché pure qui c’è un curioso pettegolezzo laterale interetnico. Nel caso di Diana si vociferava di una sua love-story con un chirurgo pakistano, il predecessore di Dodi
Devo ammettere che se sapessi che uno dei miei figli o figlie partecipasse a una manifestazione pro-Palestina in cui si inneggia ad Hamas non ci rimarrei bene. Nella mia lontana gioventù ho sfilato in cortei per cause buone e sconclusionate. Me ne ricordo uno contro l’invasione russa della Polonia, un altro contro le armi nucleari, e poi contro Gladio e contro Berlusconi buonanima; e a fine secolo non mi sono fatta mancare nemmeno un paio di girotondi. Non mi viene in mente nessuna protesta in cui noi studenti sostenessimo apertamente dei terroristi macellai, a cominciare da quelli che ancora scorrazzavano per la penisola. Gli slogan a loro favore c’erano, sì, però si leggevano soprattutto scritti sui muri con lo spray, anche perché la polizia di allora non si limitava a pestare o a caricare i ragazzi nei cortei, ma poi li andava a trovare a casa. Se mio figlio o mia figlia se ne andassero a scandire «Com’è bello quando brucia Tel Aviv», come hanno fatto gli studenti del liceo Manzoni di Milano all’indomani della mattanza di otto giorni fa, non vorrei mandarli in galera come dice Salvini. Piuttosto mi domanderei cos’è andato storto nell’educazione che gli ho dato, visto che