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Fare i turisti? Bisognerebbe impararlo da piccoli


29 Aprile 2018 / Lia Celi

Di solito si dice «questa casa non è un albergo» per dissuadere congiunti per lo più minorenni dal fare i propri comodi, cioè non rispettare gli orari, pretendere il servizio in camera e non collaborare alle faccende domestiche nemmeno con la pistola alla tempia.

Bè, è ora di rivalutare i figli cialtroni e fannulloni e chiudere un occhio quando non vogliono rifarsi il letto. Un sondaggio del portale InfoAlberghi su un campione di 200 alberghi della Riviera romagnola ci racconta che i veri capricci dei clienti dei nostri hotel sono molto peggio.

C’è chi vuole soggiornare insieme al proprio pitone, chi pretende che la piscina venga spostata in una zona più soleggiata, manco fosse una bacinella, chi chiede di ammobiliare la propria camera al primo piano con i mobili di quelle al secondo piano perché gli piace di più la sfumatura del legno. Per non parlare delle scuse addotte per annullare all’ultimo momento la prenotazione – gettonatissimi la nonna morta o i malumori del gatto, roba che non va più di moda nemmeno per giustificare i compiti non fatti in seconda elementare – o del ricatto TripAdvisor, «se non mi fai lo sconto ti faccio una brutta recensione»: come ricattatori anche i figli sono più raffinati.

Ho il sospetto che molti di questi clienti spaccaballe siano genitori che hanno sempre in bocca il «questa casa non è un albergo» e/o adulti che in gioventù se lo sono sentiti dire a tutto spiano, e così si sono fatti l’idea che l’albergo sia il luogo dove è permesso tutto quello che a casa non si può fare.

Tornano bambini, anzi, bambinacci viziati, e trattano personale e addetti come tate da tiranneggiare a piacere sapendo di avere buone possibilità di averla vinta; nel caso peggiore si fanno le valigie e poi ci si vendica in rete. (A proposito, forse ci vorrebbe un GuestAdvisor a uso esclusivo degli albergatori, in cui vengono recensiti i clienti, in modo da premunirsi contro vandali, zozzoni, incontentabili, fobici, trafugatori di asciugamani e cattivi pagatori. O forse esiste già e non lo sappiamo.)

Non c’è da stupirsi poi se il lavoro a contatto con il pubblico in alberghi e ristoranti è evitato come la peste dagli italiani più o meno giovani. I rudimenti dell’accoglienza, saper essere cortesi e disponibili senza transigere sul rispetto, si dovrebbero imparare da piccoli, a casa propria, guardando il comportamento degli adulti.

Lo chef Filippo La Mantia, lamentando la difficoltà di trovare personale di sala per il suo locale, osservava che molti ragazzi vengono da famiglie completamente analfabete in fatto di ospitalità, dove la tavola si apparecchia raramente e se c’è un amico a cena si fa venire la pizza a domicilio, da mangiare rigorosamente nella scatola.

Il termine «ospite», in italiano, indica sia chi accoglie che chi viene accolto, perché sono situazioni intercambiabili nella vita di ogni uomo. Specialmente a Rimini, città di albergatori che però, pure loro, vanno in vacanza. E siamo certi che, come ospiti in strutture altrui, sanno come comportarsi. E il pitone lo lasciano a casa.

Lia Celi www.liaceli.it