HomeCulturaFranco Cardini: “Peccato che Sigismondo venga dimenticato così facilmente”


Franco Cardini: “Peccato che Sigismondo venga dimenticato così facilmente”


6 Aprile 2017 / Stefano Cicchetti

La leggenda nera che circonda Sigismondo, due volte uxoricida, stupratore, eretico, traditore? «Il mito di Sigismondo Pandolfo Malatesta non è mai arrivato all’infamia di dire che bisogna uccidere gli innocenti e rovinare le opere d’arte per mettere in ginocchio una popolazione e quindi vincere una guerra. Queste erano cose non del Quattrocento, ma di Winston Churchill, per il quale non c’è mai stata nessuna Norimberga».

Sigismondo e la sua epoca sono ormai del tutto estranei a noi o abbiamo ancora delle cose in comune?
«Le epoche sono tutte estranee l’una all’altra e d’altra parte ci sono sempre dei rapporti e delle corrispondenze. Sigismondo Pandolfo Malatesta vuol dire tante cose».

È questo il fascino unico, impagabile, di conversare con Franco Cardini. Storico delle Crociate e negatore dei conflitti di civiltà; Reggente dei Fiorentini nel mondo, ma sempre inflessibile verso la sua città; iscritto in gioventù all’MSI e poi candidato della Sinistra per Firenze. Un pensiero libero e sempre spiazzante. Dove i paradossi sono solo apparenti e la coerenza intellettuale viene prima di qualsiasi militanza.

Del resto lui si definisce così: «Cattolico, tradizionalista, uomo d’ordine e di forte senso dello Stato, potrei forse ancora dirmi “di destra”. Da anni non mi considero né mi autoqualifico più in tal modo: ma vedo che così continuano a etichettarmi; confesso che la cosa mi secca un po’, tuttavia lascio correre. Ma la mia tensione verso la giustizia sociale e il mio convinto europeismo m’impediscono di provar la minima simpatia per una destra che ormai ha scelto quasi all’unanimità il liberismo e l’atlantismo più sfrenati e che sovente ostenta anche un filocattolicesimo peloso, strumentale, palesando di ritener la Chiesa cattolica solo un baluardo dell’ordine costituito (l’“ordine” di lorsignori) e del benpensantismo conformista».

E dunque, quante cose vuol dire Sigismondo secondo Franco Cardini?

«Vuol dire la convivenza difficile fra potere politico e potere spirituale. Vuol dire la modernità al suo inizio, con la distruzione del senso sacrale del potere e la sua sostituzione con il senso del potere come opera d’arte umana. E vuol dire il rapporto con il mondo orientale: d’altra parte Sigismondo fa la Crociata in Grecia, però tutto quello che porta dalla Grecia sono le ceneri di Gemisto Pletone per seppellirle nel suo Tempio. È uno che al tempo stesso in cui continua a offrirsi di combattere i Turchi, minaccia infinite volte di chiamare in Italia in Turchi contro il Papa. Quindi, un’assoluta libertà di modi di pensare, anche con cinismo. Un uomo – come tanti altri nel suo periodo fra i quali il suo rivale, Federico da Montefeltro – che ha capito il rapporto che c’è fra il culto del bello e il potere politico. Non solo lo stato come opera d’arte, ma le opere d’arte che servono alla costruzione dello stato. I celebrati Medici lo hanno capito molto meno, a loro è sempre servito nell’ambito di un mondo molto più ristretto, molto più cittadino, dove coltivare il bello era prova di virtù civica. Mentre invece il concetto eroico della bellezza lo hanno capito molto bene Sigismondo e Federico».

E ancora, il soldato:

«Sigismondo è la professionalità delle armi, la comprensione perfetta che senza la forza militare non si ha libertà, non si ha indipendenza. E d’altra parte la forza militare permette anche di ricavare ricchezze dal mondo che ci circonda. Lui ha fatto questo, per tanto tempo è stato “imprenditore militare”, cioè capitano di ventura. E lo ha fatto con grande spregiudicatezza, ponendo se stesso a misura della sua costruzione, senza andare a chiedere giustificazioni quali “il nome di Dio”, la “giustizia obiettiva”, l’ordine o il Codice di Giustiniano. Lui lo fa per affermare il proprio io e il proprio potere individuale. Che poi è il meglio che noi nel mondo occidentale siamo stati capaci di costruire: l’Occidente fondamentalmente è questo, è la volontà di potenza individuale. E lui è un ottimo rappresentante di ciò».

Nei ritratti di Piero della Francesca, Sigismondo e Federico si presentano in modo molto differente, a iniziare dall’abbigliamento. Come mai?

«Federico tendeva a rappresentare un aspetto più posato di se stesso, anche perché aveva responsabilità nei confronti di terzi; responsabilità che Sigismondo non ha mai voluto. Federico è stato per tanto tempo Capitano della Chiesa, con poteri quasi da cardinale laico, dovendo sempre fare i conti con qualcuno che stava più in alto di lui. Mentre invece il Malatesta non ha mai accettato nessuna forma di sudditanza; anche il suo potere feudale nei confronti del Papa per molto tempo lo ha proprio rifiutato. E infatti è stato scomunicato. Ma anche quando lo accettava, lo faceva sottolineando di essere del tutto estraneo e disinteressato a questo modo di vedere il potere, che invece esercitava come fatto assoluto rispetto a tutto il resto. Anche in questo, se si dovesse fare l’identikit del signore rinascimentale, lui sarebbe l’ideale. Anche per quel coltivare la bellezza fisica, che è un concetto profondamente albertiano. Leon Battista Alberti parla ,nel “De Familia”, delle virtù ginniche come complemento dell’educazione cavalleresca e quindi della produzione di un essere che è per definizione “bello e buono”: nel senso greco dei termini, dove il “buono” non è tanto una qualifica morale ma piuttosto una qualifica di potere. Beh, per queste cose bisogna aspettare l’Ottocento tedesco perché ritornino in auge, a proposito del rapporto fra politica, bellezza fisica, ginnastica. Tutto questo nasce quando l’Ottocento riscopre il grande Umanesimo dell’Italia centrale. Ma soprattutto riscopre proprio lui, Sigismondo, perché gli altri le hanno dette e fatte in modo meno caratteristico».

E quel ritratto inginocchiato di fronte all’imperatore? Forse il Malatesta riconosceva più lui del Papa?

«Senza dubbio in quell’affresco di Piero nel Tempio c’è l’elemento della sfida al potere pontificio. Però quell’imperatore, che è San Sigismondo, innanzi tutto si chiama come lui, anche se è vero che ha le sembianze di Sigismondo di Lussemburgo».

Eppure Carlo, il grande zio e predecessore di Sigismondo, aveva seguito una politica opposta, addirittura divenendo l’uomo di fiducia e ultimo difensore di Papa Gregorio quando tutti l’avevano abbandonato. Perché questa inversione di rotta?

«A un certo punto in casa Malatesta si iniziò a ricordare Carlo come quello politicamente un po’ più sfortunato. E a torto o a ragione, ad associare questa mediocre fortuna a quella sua sicurissima fedeltà alla causa pontificia e proprio nel momento gioco in cui di papi in gioco ce n’erano più di uno; situazione ideale per non ubbidire a nessuno. Del resto non litigavano su questioni culturali o religiose, sulle quali erano tutti d’accordo; ci si scontrava su questioni molto più concrete».

Giorgio Gemisto Pletone, che Sigismondo ammirava tanto e a cui si sarebbe ispirato anche per il Tempio, davvero sognava una sola religione per cattolic , ortodossi e anche musulmani ed ebrei?

«In realtà questo è un topos del Rinascimento. E anche della religione cristiana. Le stesse esatte cose le ha dette Nicola Cusano, che era cardinale, nel “De pace fidei”: che in fondo le differenze storiche contano poco; che la fede abramitica unisce gli ebrei, i cristiani e i musulmani in una fede unica; che c’è uno stesso Dio e uno stesso corpo di dottrine fondamentali e il resto sono più o meno elementi accidentali, quelli che costituiscono lo specifico di ciascuna religione. È il tema, che è umanistico, dell’unità del genere umano e quindi della relativizzazione di tutto quello che può essere diversità, qualità individuali, differenze culturali o economiche, sociali o politiche. Si tende a diminuire tutto questo in nome di un concetto di umanità che, naturalmente, è sempre sostenuto dal concetto di monoteismo cristiano. Però questo monotesimo in realtà resta sempre sullo sfondo, perché viene tradotto in termini così fortemente “romani”, perché l’idea dell’unità mondiale di tutti i popoli è certo un tema cristiano, però che viene visto piuttosto attraverso un prisma che è quello dell’ideologia dell’impero romano».

È anche la visione di Papa Francesco?

«Il nostro è un Papa apocalittico. Perché ha la sensazione, che è tipica di tutti i papi, forse dal primo in poi, dell’aspettazione del Regno dei Cieli come vicino. Tipico appunto dei primissimi papi e della primissima Chiesa: nel giro di pochissimi anni o di pochissime generazioni il mondo dovrà esplodere, l’umanità finirà e dopo ci sarà la grande resurrezione. E alla grande resurrezione tutti avranno recuperato per intero la loro storia, anche individuale, anche di differenze, di inimicizie, di progetto diversi. E troveranno un’unità superiore proprio attraverso la comprensione dell’elemento unico che li agitava, mentre loro erano in grado, finché erano involti nel peccato, di capire soltanto le cose che li dividevano dagli altri. Questo è un tema che nel Rinascimento hanno svolto un po’ tutti, la Chiesa cattolica per un verso, le Chiese protestanti per un altro. E i filosofi, che ormai preludevano ai filosofi laici del cinque-seicento, perché ormai i temi erano quelli: del dominio dell’uomo sul creato, sulle cose materiali; della necessità di “avere successo” come dato umano che conforta il principio che si è veramente padroni dell’esistenza, quando le cose di tutti i giorni sembrano piegarsi alla tua volontà. Ma questa è un’illusione ottica, perché quello si piega davanti alla volontà del credente come conseguenza della sua fede in Dio. Erano tutte cose che si potevano dire, ma in realtà avevano sempre meno appeal nel corso del Quattrocento davanti all’idea invece di un’eccellenza dell’uomo e di una sua autosufficienza. Quello che veramente è nuovo nell’età moderna è quest’idea che l’uomo in quanto tale è signore dell’universo. Perché è fatto a immagine divina; però la storia non riconosce validità alle immagini, la riconosce a quegli esseri umani che hanno avuto in pugno l’umanità. E quindi c’è un accrescere di valori a carattere eroico, su modelli che sono sempre classici; però ci sfugge magari qualche volta che questi modelli classici sono passati attraverso una successiva cristianizzazione. Non c’è più una differenza vera e propria fra quello che è cristiano e quello che non lo è, perché tutto è considerato sempre riflettersi vicendevolmente».

Cosa potrebbe fare la Rimini di oggi per Sigismondo? E lui può fare ancora qualcosa per la sua Rimini?

«Potrebbero, sia i riminesi che i turisti, stare un po’ più attenti alle reliquie sigismondiane. Non tanto dal punto di vista della conservazione o del restauro, quanto del riconoscimento di quanto la città deve a un personaggio come Sigismondo. Quindi una messa in luce della sua qualità più attenta dal punto di vista culturale e storico. In fondo, non so da quando non c’è più stata una mostra seria su Sigismondo Malatesta. Dalla costruzione del Tempio fino alle rocche della provincia e alla Biblioteca, alle sue stesse vicende personali, è un personaggio di grandissimo rilievo. È un peccato che venga dimenticato così facilmente. Sì, ormai l’uso della celebrazione dei grandi della propria patria non c’è più in Italia, a Firenze non si fanno mica grandi cose per i Medici. Ma nel caso di Sigismondo Pandolfo il silenzio è un po’ pesante. Per fortuna ci sono tanti centri, anche fuori di Rimini, che mantengono la sua memoria, la stessa raccolta di opere d’arte che lo riguardano. Addirittura, si potrebbe dire che di lui si è parlato anche fin troppo, sappiamo moltissimo di lui; forse però varrebbe la pena di tornarci anche sopra per bene. Per esempio sulla politica estera, la politica militare, dove ebbe una lunga esperienza unita a una vera genialità nel costruire situazioni, che non sono presenti in tutti i signori rinascimentali».

E il suo grande antagonista, Papa Pio II?

«Non succede in tutti gli angoli della storia della civiltà che due persone dello stesso livello e della stessa qualità siano anche coevi e commercino fra loro e naturalmente si combattano. Ma questo è un altro discorso».

Oggi incontra tanti ragazzi, come di recente a Riccione per le Giornate del Mediterraneo. Che impressione ha delle scolaresche italiane?

«Sarà che ho fortuna, o che ho sempre incontrato buoni insegnanti, ma io vedo sempre molta disciplina, molta attenzione e anche una certa corrispondenza. Certamente ci sono delle regole del gioco, non si può insistere più di tanto nel fatto che il ragazzo confidi nelle sue cognizioni, nel suo profilo intellettuale, con un’idea di acquisizione culturale: quello è difficile. Ma secondo me, non si deve mai obbligare i ragazzi a questa cosa pietosa, umiliante anche per loro, del mettergli in bocca espressioni di grande ammirazione, di meraviglia per alcuni temi, perché poi non sempre loro le provano. È quello che suona un po’ falso quando poi si interrogano magari i ragazzi più studiosi, che ti fanno la lezione perché son convinti che tu voglia gli si dica questa cosa. Far vivere quelle realtà lontane al meglio, o meglio che si può, è naturalmente molto difficile, perché le condizioni sono diverse, le condizioni sfuggono. Quella era gente che pensava per certi versi in modo molto simile al nostro, per altri in modi diametralmente lontani. Si rischia di fare operazioni intellettualmente poco pulite, cercando i rapporti, i paragoni eccetera. Bisogna invece starci molto attenti».

Sono appena stati celebrati i trattati europei. Fra vent’anni che Europa ci sarà, se ci sarà?

«Non vedo una volontà di costruzione europea. Per costruire l’Europa bisognare cominciare a ragionare in termini politici, configurare un potere politico. Bisognerebbe che qualcuno spiegasse come si potrebbe fare per avere adeguatamente un governo che sia superiore a quelli nazionali. Che per forza di cose temo dovrebbero restare, perché l’Europa non è l’America. In Europa ogni stato ha una sua civiltà, una sua cultura particolare. Negli Stati Uniti le differenze non si va oltre un certo segno folclorico; nel mondo europeo no, c’è una pesantezza nella storia degli stati, in tutti i sensi, e bisogna tenerne conto. Però ogni tanto vedo che un progetto di effettiva unità europea viene fatto. Come quello di un’elezione diretta del capo dello stato federale europeo. E la costituzione di dei singoli capi di governo i team ministeriali: quello potrebbe essere già un primo passo. Un secondo passo potrebbe essere quello che hanno fatto gli Stati Uniti e quello che voleva fare Renzi qui da noi: una camera dei deputati di politici e un senato di esperti di realtà politiche locali. Negli Usa sono i singoli State, da noi potrebbero essere i capi di governo dei vari stati nazionali, dai quali non possiamo prescindere. Non possiamo dire che faremo un’Europa azzerando gli ultimi tre, quattro secoli e cioè i secoli in cui gli stati nazionali sono cresciuti. Certo, si può sempre costruire altri stati, che sono culturalmente importanti anche se non hanno mai avuto indipendenza. Si può dire allora, riorganizziamo, non dico la Padania, ma la Baviera sì; o spezzettiamo il Regno Unito. Ma più di tanto non si può fare, non ci si può avviare alle costruzioni funamboliche, tirar fuori uno stadio della Curlandia o della Moldavia, gli stati ormai sono quelli che sono. Affidare le mansioni di governo a rotazione potrebbe essere una via. Però bisognerebbe uscire da questo equivoco per cui non abbiamo l’Europa però abbiamo Eurolandia. L’euro oggi è l’unico oggetto di studio, anche penale, di un sistema europeistico. Un po’ poco».

Prima la difesa comune o prima un sistema fiscale unico?

«È chiaro che l’Europa è fin qui fallita perché c’era un vizio di fondo. Le opinioni pubbliche credevano che si stesse facendo un’unità politica e quindi si chidevano leggi comuni e anche un esercito, una difesa comune. E invece chi ha organizzato l’unità europea si accontentava di uno stadio socio-economico-monetario. A questo punto noi abbiamo però uno strumento comune. Lo possiamo anche eliminare, ma poi ne dobbiamo costruire un altro. E c’è da chiedersi: se vogliamo rinunziare all’euro, abbiamo la forza di imporre la nostra moneta nazionale? No. Allora dovremmo aggirare l’ostacolo tornando umilmente a chiedere a quelli ai quali abbiamo rifiutato obbedienza, perché la nostra moneta era in realtà la loro, di aiutarci per piacere a farci una moneta nostra. Con il rischio di sentirsi risponder picche. Quello che è successo può essere modificato, ma vedo irreversibile quel poco che è stato fatto. E da quello ripartire. Aggiungere a elementi statuali che già ci sono, elementi che permettano sul serio a una costruzione economica-finanziaria di trasformarsi in una entità politica. È necessario un corpus di leggi, è necessaria una costituzione. Ed è necessaria una forza di difesa., perché senza un’autentica e comprovata libertà militare non si può andare da nessuna parte. In altri termini, non si può fare l’Europa illudendosi di poter semplicemente incamerare la forza militare del Patto Atlantico. Tutto questo non lo vedo per i tempi brevi. E quindi mi aspetto una sorta di coma, che può essere più o meno formalizzato e durare chissà quanto. A meno che non succeda qualcosa, e qualcosa può sempre succedere».

Stefano Cicchetti