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Rimini 1672: il tremuoto non è un puro castigo di Dio!


8 Settembre 2016 / Oreste Delucca

Sul terremoto riminese del 1672 è opportuno fermarsi ancora un poco, giacché è stato il primo grave flagello di cui abbiamo svariate notizie, consistenti in relazioni manoscritte e descrizioni a stampa; ma è stato anche l’ultimo cataclisma che i superstiti (religiosi e laici) hanno giudicato concordemente e senza alcun dubbio come un frutto della collera divina ed una punizione dell’empietà umana. Quel medesimo anno 1672 usciva un opuscolo intitolato:

Nova e vera relatione del spaventoso e horribile terremoto che su l’hore 21 delli 14 aprile 1672 si fe’ sentire per tutta Romagna e Marca, ma particolarmente nella città di Rimini con atterramento di chiese, palazzi, torri e case, con mortalità considerabile di persone”. L’estensore tuonava: “S’è tanto inoltrata la malizia umana che ha sforzato l’onnipotente Mano di venire alla vendetta. Le chiese (mi vergogno a dirlo) sono diventate mercati o, per dir meglio, lupanari; le lascivie sono ridotte al non plus ultra e poi ci meravigliamo che la terra vacilli se non può sostenere tali misfatti?”

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E un anonimo prelato, in altro opuscolo, gli faceva il contro canto: “Non si può tralasciare di riflettere che le rovine maggiori furono delle chiese ed edifizi sacri; e credesi perciò che la Divina Giustizia habbia così voluto dimostrare il suo sdegno contro il poco rispetto e poca riverenza che da alcuni o da molti si haveva verso le chiese”.

In questo clima, non meraviglia se “ognuno in privato era intento alla pietà e a mitigare l’ira di Dio”; così come non meraviglia se la prima riunione del Consiglio cittadino – come s’è visto la volta scorsa – venne destinata in misura preminente a fissare una serie di atti devozionali e di penitenza, da praticarsi nell’immediato e negli anni a venire.

Le citate relazioni si dilungano nel descrivere questo “horribile terremoto, il quale per mostrarsi perfettamente terribile, si fe’ tre volte da capo, onde non solo per tutta Romagna, ma anche per la Marca s’è fatto sentire con spavento e danno di molte città e terre, ma particolarmente della detta città di Rimini”, tanto che i suoi begli edifici “hora con le loro rovine li stimaresti sepolchri d’horridezza”.

Nelle strade “ognuno, per assicurare le proprie case dalle imminenti cadute, procurava di sostenerle con travi talché la città, trasformata in selva, da soli pedoni rendeasi praticabile”. Nel contempo il Fattore della comunità assoldava squadre di manovali (pagati 15 baiocchi al giorno) per sgomberare le macerie dai palazzi pubblici, cercando di salvare le suppellettili, i documenti e le scritture recuperabili. Il Vicelegato, da parte sua, faceva predisporre la perizia delle somme occorrenti per ripristinare il patrimonio edilizio colpito dal terremoto. Da tale perizia sappiamo che, oltre alla città, le località del forese danneggiate in misura significativa furono: Coriano, S. Andrea in Besanigo, S. Andrea in Patrignano, Passano, Montecolombo, Misano, Agello, S. Clemente, Castelleale, Gemmano, S. Savino, Monte Tauro e Mulazzano.

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La nota spesa per le paghe dei manovali che sgombravano le macerie

Il pontefice Clemente X, che aveva disposto le provvidenze economiche di cui s’è già detto, venne gratificato dalla città con una lapide eretta nel pubblico palazzo, la cui collocazione materiale però avvenne solo a ricostruzione ultimata, nel 1687, al tempo del suo successore, papa Innocenzo XI. Oggi, sotto il loggiato di Palazzo Garampi, nella cantonata che sta fra la piazza Cavour e il Corso d’Augusto, quel marmo continua a fare bella vista di sé anche se noi, cittadini frettolosi, gli passiamo innanzi continuamente senza mai alzare lo sguardo o soffermarci a leggerlo.

Quanto alla teoria del “castigo divino”, indiscussa fino a quel momento, i decenni successivi provvidero gradualmente a destituirla di credibilità; anche se le superstizioni di un popolo incolto, inculcate da un clero retrogrado, ebbero ancora lunga vita. Nell’opera di demistificazione un ruolo importante va attribuito al naturalista riminese Giovanni Bianchi (Jano Planco). In una sua famosa lettera pubblica, egli affermava:

il tremuoto non è un puro castigo di Dio, ma un vero fenomeno della natura com’è la pioggia, la nebbia, la neve, la grandine, il fulmine, le tempeste e cose simili”. Solo il senso di sgomento che provoca e la difficoltà di comprenderne i meccanismi può erroneamente far credere ad una punizione divina. Nella specifica vicenda riminese del 1672, perché le morti sono avvenute soprattutto nelle chiese e non nelle case? Non per vendetta celeste, ma “perché è più facile che le chiese, le quali hanno altissime muraglie e senza travi, con le loro volte cadano, anziché le case che divise sono in tante piccole camere legate con tante travi”.


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