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11 gennaio – “Zoca e manèra!”


11 Gennaio 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

L’11 gennaio la Chiesa cattolica commemora S. Igino, uno dei primi Papi, morto nel 142 ai tempi dell’imperatore Antonino il Pio.

Sen Gino Pepa non fu martire, ma ebbe il suo bel tribolare per tenere a bada le eresie che già dividevano i fedeli.

Niente comunque a confronto con quanto dovettero affrontare gli ultimi Papa Re, soprattutto nella parte più ribelle del loro Stato pontificio: le Romagne. 

L’avversione era per i preti, più che per la religione:“E bsogna lassè fè m’e Signòr, che lo l’ un bon azdor”, bisogna lasciar fare al Signore, che lui è un buon reggitore; “U n  sarà tot quel chi j dis, ma un Supremi u j a da es”, non sarà tutto quello che dicono, ma un essere supremo ci deve essere. L’anticlericalismo aveva trovato terreno fertile in uno stato governato solo da ecclesiastici: nello Stato della Chiesa fino al 1848 potevano essere ministri esclusivamente i cardinali e anche i governatori provinciali erano per lo più dei prelati. E avevano governato non sempre benissimo: tolleranza zero per il dissenso politico; polizia occhiuta quanto corrotta; massima prudenza, per dir così, verso ogni progresso economico, tecnologico, sociale.

Infiniti i detti romagnoli che ne parlano. A caso fra i tanti: “Frè e prit, ben magnè e nu fe gnint”, frati e preti, mangiar bene e non far niente; “La va pr’i prit becfutut, che i po di: Boca meia cosa vuoi?”, la va per i preti beccofottuti, che possono dire: Bocca mia cosa vuoi?; “Prit e asasein, i dmanda di quatrein”, preti e assassini, chiedono dei quattrini; “E’ prit la trinitè l’adora: rem, arzent e ora”, il prete adora la trinità: rame, argento e ori; “L’ǒmvra de campanil, l’ingrasa enca i piǒ stil”, l’ombra del campanile, ingrassa anche il più sottile.

Né le donne, reputate più devote degli uomini, manifestavano più fiducia: “I piǒ pchè, u i fa i prit e i omne maridè, i più grossi peccati li fanno i preti e gli uomini maritati; “Fal ciarghin, s’t’ vo e birichin”, fallo chierichetto (il figlio) se lo vuoi birichino: che non era un dolce vezzeggiativo, ma l’etichetta infamante dei bambini di strada, (“at mand te culèg di birichìn, ti mando al collegio dei birichini, il carcere minorile) un tempo endemici da queste parti come oggi nel terzo mondo.

“L’eseigement clerical”, copertina della rivista satirica francese Les Corbeaux, 1906

Secondo il popolo i preti stavano con i “sgnour”, i padroni. Eppure nemmeno i benestanti li amavano troppo: Né mul e né mulen, né cumper si contaden, ne tera dri e’ fiom, né prit e fre tond i quajuin”, né mulo e né mulino, né compare dei contadini, né terra vicino al fiume, né preti e frati attorno ai coglioni: erano gli infallibili precetti per il possidente che voleva prosperare.

Dopo la Rivoluzione francese, in tanti aderirono alle posizioni più radicali, sintetizzate nella maniera più cruda da quello che diverrà il saluto degli internazionalisti romagnoli: “Zoca e manèra!”, ceppo e mannaia: per far rotolare le teste di religiosi, aristocratici, ricchi e di ogni nemico del popolo.

Fra chi gridò queste parole, anche un “insospettabile”, almeno se ci si ferma alla superficie dei suoi delicati versi: Giovanni Pascoli. 

Lo ricorda il sindaco di San Mauro Pascoli, Gianfranco Miro Gori, in un’intervista pubblicata sul sito del Museo Casa Pascoli.

Sindaco Gori, lei ha curato un convegno e la relativa pubblicazione degli atti, Pascoli socialista (Patron, Bologna 2003), dunque sembra la persona giusta per parlarci del socialismo pascoliano?

«Confesso che il socialismo di Zvanì (mi permetto di usare l’appellativo dialettale materno in quanto compaesano del poeta) mi interessa molto. In primo luogo perché sono socialista. In secondo luogo perché ho maturato un crescente attaccamento alla figura di Pascoli, al di là del fatto che sono sindaco di San Mauro, e ciò è per me un dovere. Considero il socialismo europeo, il movimento politico più importante, giusto e utile degli ultimi due secoli (Otto e Novecento) come pure del presente. Considero Pascoli, il poeta italiano più importante (dopo Leopardi) del medesimo periodo. Dunque scoprire che Pascoli era socialista è stato per me un piacere, oltre che un motivo di studio».

Ma che tipo di socialista fu Pascoli? Anche perché ci sono e ci sono stati molti socialismi?

«Anzitutto, vorrei precisare che se è vero che ci sono stati tanti socialismi, quello buono, per così dire, è uno solo. È socialista chi difende l’uguaglianza delle opportunità, sta dalla parte dei più deboli, lavora per una più equa distribuzione della ricchezza, nutre un culto della libertà individuale che finisce quando comincia quella degli altri».

Ma Pascoli?

«Era un poeta, non un uomo politico. Anche se, fino a un certo punto della sua vita – l’ha dimostrato Elisabetta Graziosi in un bellissimo saggio pubblicato nel citato Pascoli socialista -, accarezzò l’idea di dedicarsi, come giornalista, alla rivoluzione. Insomma: voleva fare l’agit-prop con Andrea Costa. Anzi, pare proprio che, per un certo periodo, l’abbia fatto. I pochi documenti sul periodo ribelle di Pascoli confermano che non stava scherzando. Dal saluto in puro stile internazionalista, zòca e manèra (ceppo e mannaia) a poesie come La morte del ricco, pubblicata da Francolini sul riminese “Nettuno”».

A Rimini, Pascoli fece i primi incontri internazionalisti?

«Pare proprio di sì. Studente liceale, c’è una lapide nella piazzetta Gregorio che lo ricorda, conobbe i reduci riminesi che avevano combattuto per la Comune di Parigi. Sempre a Rimini fu tenuto il primo congresso dell’Internazionale dove, probabilmente, incontrò Andrea Costa. A Bologna, all’università, partecipò attivamente al movimento socialista antiautoritario, come si diceva, ovvero anarchico. La polizia, sono i documenti a dircelo, lo sorvegliava attentamente».

Nella piazzetta “delle poveracce” si nota la lapide che ricorda la casa dove Giovanni Pascoli abitò da studente a Rimini

Finì in carcere?

«In quel periodo. Più o meno andò così. Dietro al carro degli internazionalisti imprigionati, gridò: “Viva i malfattori moderni!” Fu preso e sbattuto in galera. Si fece tre mesi e mezzo a San Giovanni in Monte».

Quando decise di abbandonare la politica attiva e dedicarsi all’insegnamento?

«Secondo la Graziosi, che mi pare ben documentata e attendibile, entrò in crisi quando Andrea Costa, con la famosa lettera ai socialisti romagnoli, optò per la via legale. Fu in quel momento che Zvanì decise di dedicarsi all’insegnamento».

Lei ha scritto che Pascoli restò, comunque, socialista.

«Ne sono convinto. Non fu certo un socialista con tanto di tessera e gagliardetto. Un quadro di partito. Un militante. Fu un socialista del cuore. Lui stesso, per esempio, nell’epitaffio dedicato a Costa, parlò di “incendio d’amore”. Siamo nel 1910».

Per il discorso della Grande proletaria, che è dell’anno successivo, si è parlato di protofascismo.

«Anzitutto, non posso non rilevare quale eccezionale “comunicatore” egli fosse. Al di là dell’aspetto fisico da fattore. Geniale. Quanto alla domanda, farei uno sforzo per inquadrare il discorso nella ricerca di una via nazionale al socialismo».

Vuole aggiungere qualcosa per concludere?

«Inviterei i lettori di Pascoli, qualora interessati all’argomento, a cercare il suo socialismo anche nelle poesie. Il poeta parla coi versi. Se fu socialista, lo fu soprattutto lì. Non in senso zdanoviano, ovviamente. Lì Pascoli fu cogli umili, coi deboli. Nel contenuto e nella forma».

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