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12 gennaio – “Comunèsta dla pièda armes-cia!”


12 Gennaio 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

 

Csa j’et, e’ mi Angiulin, csa j’et in cla gulpè?

La j’è pr’e’ suldadin, l’è roba da magnè!

Oh dio, la piè! 

Udor da cà! Che riva iquà,

E e’ sent chi ch’mâgna, eria ‘d Rumâgna

Chi manda ste tvaiol, ste bel tvaiol ‘d bughé?

A che puret de fiol, la mama tuva ‘d te

Oh dio, la piè…

Chisà quel ch’la dirà, parchè ch’la ‘s feza bon!

 T’apensa a i tu da cà, t’la megna in divuzion,

Oh dio, la piè…

Spartegna la gulpè, ch’a j a vlen pinser in du…

E al bocch agli a magnè, e j’occ j’a un po’ pianzù

Oh dio, la piè…

Cos’hai, mio Angiolino, cos’hai in quell’involto? E’ per il soldatino, è roba da mangiare!

Oddio, la piada! Odore di casa, che arriva qua. E sente, chi ne mangia, aria di Romagna. Oddio, la piada!

Chi manda questo tovagliolo, questo bel tovagliolo di bucato? A quel povero figliolo, la mamma tua di te. Oddio, la piada…

Chissà cosa mai dirà, perché ci faccia buon pro, che tu pensi ai tuoi di casa, che tu la mangi con devozione, Oddio, la piada…

Spartiamoci l’involto, che ci vogliamo pensare in due. E le bocche hanno mangiato, e gli occhi hanno un po’ pianto. Oddio, la piè…

Il tenente medico Aldo Spallicci sul Carso nel 1916

Il bertinorese Aldo Spallicci nella sua «”canta” di trincea», poi musicata da Balilla Pratella, ha scritto ai tempi della Prima Guerra Mondiale le parole più commoventi sulla piada, o pièda, o pida, o piadòina. La Piè fu il nome della rivista fondata dagli stessi Spallicci  e Pratella di studi e folklore romagnolo, sacrario del rimpianto “per una Romagna che non c’era più, e forse non c’era mai stata”, chiosa Gianni Quondamatteo.

Prima di loro, Giovanni Pascoli invece aveva rintracciato la piada anche nell’Eneide di Virgilio, identificandola con «il pane rude di Roma»:

…il pane della povertà, che trovi tu, reduce aratore, esca veloce,

che sol s’intrise all’apparir dei bovi:

il pane dell’umanità, che cuoce in mezzo a tutti, sopra l’ara,

e intorno poi si partisce in forma della croce:

il pane della libertà, che il forno sdegna venale;

cui partisci, o padre, tu, nelle più soavi ore del giorno…

Ma la piada come la conosciamo noi è una parente molto ricca e un po’ lontana di quella tradizionale. Come scrive Piero Meldini, «Il sospetto è che la fragrante piada di farina di frumento cara al poeta e a tutti noi sia una variante relativamente tarda e nobile della meschina “piadina” di cereali vili e altri ingredienti anche peggiori (fave, fagioli, castagne, ghiande, crusca e perfino segatura) che, nei “bei” tempi andati, serviva almeno a calmare i morsi della fame. Se ne traevano delle piade per l’ottima ragione che quella robaccia non si poteva mescolare al lievito e panificare. Nel 1801 il medico Michele Rosa consiglia ai più derelitti di confezionare piade (anzi, “piadine”) con la farina di mais e la ghianda macinata: “Chi non ha che formentone e ghianda”, ammonisce “non ne faccia pane, ma si contenti della piadina”». 

Con ingredienti di tal fatta, non stupisce che tutte le fonti antiche che parlano di piada lo facciano con notevole disprezzo. Cibo povero per poverissimi, dai valori nutrizionali bassi per non dire nocivi. Ma oggi quelle ricette originarie può anche darsi che siano siano riesumate in versione dietetico-punitiva da qualche chef salutista.

E i ripieni? Erano pressoché invisibili sulla mensa contadina – se non per occasioni epocali – i prosciutti e i salami, le salsicce e lo squacquerone, per non dire delle infinite e fantasiose farciture moderne, più o meno contaminate con altre gastronomie, da pomodoro e mozzarella in poi. Chiuse nel “cassone” di una volta c’erano solo le erbe di fosso, quelle che non costano nulla se non la fatica di raccoglierle.

E i sardoncini? Magari. A Rimini nei tuguri dei Borghi di Marina e San Giuliano si vedeva spesso pendere una renga a mo’ di lampadario sopra tavola. Quell’aringa affumicata doveva durare tutto l’inverno e serviva solo per strusciarvi sopra la piada,

Così il contadino di San Lorenzo a Monte intervistato da Liliano Faenza e riportato da Meldini: «Allora [negli anni Trenta] il pane non si mangiava mai. Solo piada di polenta o pièda armés-cia […]. Durante il raccolto […] si faceva il pane nel forno sotto il portico, ma solo per cinque o sei giorni. E poi c’era più polenta e meno farina. Ecco perché si faceva la piada».

Gianni Quondamatteo: “E’ magna l’armes-cia schelda te sol”: mangia l’armes-cia scaldata al sole: l’indigenza assoluta.

L’alone negativo della pièda armés-cia inevitabilmente finiva in politica: “Comunesta d’la  pièda armés-cia!”, comunista della piada “mista”, spiega Gianni Quondamatteo, era l’epiteto che i compagni riservavano al militante troppo tiepido.

Oppure era il motteggio dell’oppositore che stava con la Democrazia Cristiana (nel dialetto, la “Demucrazeia” tout court, all’opposto del “Partìd”, l’unico partito concepibile, quello comunista), per smascherarlo quando se lo ritrovava inopinatamente accanto in chiesa. O a sussurrare furtivamente un Pater durante un funerale.

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