HomeAlmanacco quotidiano22 marzo 1797 – I castelli di Rimini saccheggiati dai “montanari”: ribelli o banditi?


22 marzo 1797 – I castelli di Rimini saccheggiati dai “montanari”: ribelli o banditi?


21 Marzo 2023 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Il 21 marzo 1797 circa centocinquanta “montanari”, armati e divisi in vari drappelli, si presentano ai proprietari del Comune di San Mauro e della sua campagna “per averne violentemente dei generi” alimentari: “incutono in tutti un gran timore colle jatanze, e colle minaccie, che spargono, massime contro quelli, che si mostrano più fedeli alla Repubblica”. Quel che fa più paura, è la loro intenzione “di tagliare la fossa, che conduce l’acqua dalle parti superiori a Santarcangelo, ed a Rimini per uso dei rispettivi molini, lo che seguendo porterebbe la fame a quella Terra”, alla città di Rimini, “ed alle rispettive campagne, giacché le farine, che si hanno sono sufficienti alle rispettive popolazioni” . Così Antonio Montanari ricorda i fatti del 1797, quando divampa la ribellione contro l’occupazione francese e la Repubblica Cisalpina voluta da Napoleone.

Ma è solo una sollevazione politica? Secondo la cronaca di Nicola Giangi, che è un irremovibile reazionario, questi sono dei “malviventi”. Provengono da “Sogliano, e Monti”, “e sono scesi a San Mauro perché proprio lì si trovava il grano requisito dal Commissario francese Giulio Fortis”.

Di lì a poco tocca a Santarcangelo. Qui “il cittadino Baldini ha avvertito che quel Paese si trova esposto al furore di detti forusciti in modo, che minacciano d’impadronirsene, e tanto è il timore, che vi hanno incusso, che i Municipalisti hanno abbandonato la loro residenza, e gli abitanti hanno chiuse le Case, e le Botteghe, e molti se ne sono fuggiti come ha fatto lui medesimo per aver inteso, che lo cercano particolarmente per esser egli stato uno di quelli, che scortò i dragoni francesi spediti a Sogliano: e ci ha confermato la protesta dei Malviventi di voler impedire il corso dell’acqua ai molini”.

Dragone dell’esercito napoleonico

La Municipalità di Rimini nella sua relazione a Pierre Belon Lapisse, generale della Division Côtière (“Divisione della Costa”) che fa parte dell’Armée d’Italie (Armata d’Italia), spiega senza giri di parole che “le Montagne da cui calano quei scelerati, sono scarsissime di viveri a causa della proibizione uscita dall’Amministrazione Centrale di lasciar sortir generi dalla Provincia”. Tale proibizione “potrebbe obbligarli per la fame a maggiori violenze: giacché una gran parte del Monte Feltro, in cui sonosi annidati per la maggior parte detti Forusciti, non possono tirare la loro sussistenza, che dalla Piazza di Rimini”. Inoltre la penuria è aggravata anche da un’epidemia bovina.

L’assalto a Santarcangelo è descritto nel rapporto della municipalità riminese al Vice Comandante della Piazza Bondedier: verso la sera del 22 marzo 1797 “è giunta colà una moltitudine di Contrabandieri considerata di passa mille teste, la quale si è impadronita di detta Terra, di tutte le Armi Civiche, e dei generi, e forse a quest’ora avrà dato il sacco a quelle case, e di più si è milantata di venir domattina ad invadere Rimini”.

La  Municipalità invia a Lapisse “la nota dei Capi malviventi, che abbiamo esatta dal Comandante della Guardia Civica” e chiede al locale “Giusdicente Criminale Cittadino Tonti” di attivarsi con “fedeli Esploratori” nella caccia ai “Montanari insorgenti”: su di loro c’è il sospetto che “possano avere qualche segreta intelligenza con alcuni del nostro Popolo”.

Mentre a Rimini si stendono i piani, a Coriano il 25 marzo si presenta “un Picchetto di 22 Contrabandieri avente per capo certo Simone Tonti della Taverna, che obbligò quegli Abitanti a deporre la Cocarda Francese, strappò dal solito luogo gli Editti del nuovo Governo, ed intendeva di volere le Armi di quella Guardia Civica, se non fossero state custodite nel Castello da Cittadini armati”.

Contemporaneamente è assalita San Giovanni in Marignano, dove sono di stanza i dragoni di Cattolica, cioè la cavalleria leggera impiegata in tempo di pace nel mantenere l’ordine pubblico. Lo stesso 25 marzo a Monte Scudolo (Montescudo: “Terra unita a questa città [Rimini] nel rapporto della Contribuzione, ma non ad essa soggetta”), ecco “due masnade di contrabbandieri in numero di 35 o 40, i quali presi i posti più vantaggiosi del Paese, si diressero al capo di quella Municipalità nel Quartiere della Guardia Civica, gli fecero perquisizione di tutte le carte, le lessero, s’impadronirono delle armi, e le asportarono, vollero a forza da lui la consegna di cento scudi raccolti per la contribuzione, e dal Governatore Allocatelli altri scudi 28, rilasciandone all’uno, ed all’altro la ricevuta sempre con minaccia della vita”. Obbligano il “Capo Municipalista ad esporre egli stesso nel primiero luogo lo stemma del Papa”.

Generale di divisione francese nel 1812

Dunque sono ribelli politici, “malfattori” o solo disperati spinti dalla fame? Probabilmente tutte e tre le cose insieme, ma è significativo che il movente politico faccia comodo a entrambe le parti. Non solo a loro stessi, che rilasciano “ricevute” e si ammantano di una motivazione ideale, ma anche ai “Giacobini”, perché ciò dimostra che la ribellione è sobillata dai nostalgici dell’Antico Regime e non dai disastri provocati nella campagne dalla rapace amministrazione francese, sempre affannosamente a caccia, a forza di requisizioni, di ogni sostentamento per le interminabili guerre della grande Armée.

Altri assalti si susseguono a Monte Colombo, Verucchio, ancora Coriano, Sant’Andrea in Patrignano, Gambettola, San Martino dei Molini, Montefiore, San Patrignano, Besanigo, Pietracuta, Monte il Tauro e Scorticata. Sembra che ad agire siano in tutto circa 500 Contrabandieri. Di ciascuno o quasi si sa nome e cognome, a iniziare dai capi, perché a quei tempi tutti conoscono tutti. L’amministrazione repubblicana di Rimini, presieduta dal “cisalpino” Conte Nicola Martinelli, sembra barcamenarsi fra trattative più o meno sotterranee per evitare guai peggiori e un palese ed entusiastico ossequio agli occupanti, che però si traduce in pratica nel lasciare a loro l’onere della sanguinosa repressione.

Tavoleto

Che il 26 marzo inizierà proprio da Santarcangelo“un affare di mezz’ora”, scriverà l’amministrazione riminese nel suo elogio ai “bravi Francesi” – durante la quale i “Montanari” che ancora vi spadroneggiano vengono sbaragliati dall’“intrepido generale Chambarlhac” con le sue truppe giunte da Cesena. E terminerà il 31 marzo con l’incendio e la strage di Tavoleto, dove alla fine i “malfattori” si erano trincerati. Il generale Sahuguet con 800 fanti e 200 cavalli li aveva sorpresi a Cattolica e poi dispersi e inseguiti a Morciano, Montescudolo, Mondaino, Soliano”. Al grido di “Brûlons Tavolon!” il paese verrà saccheggiato e dato alle fiamme. La maggior parte dei ribelli dopo una breve resistenza riuscirà a dileguarsi fra i “monti” da cui proveniva. In compenso moriranno almeno 18 abitanti, fra cui un bambino di 9 anni e un anziano prete, don Gregorio Giannini, perito nelle fiamme non potendo muoversi dal suo letto poiché infermo. Banditi o ribelli, l’ordine è ristabilito. Almeno per ora.