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9 gennaio – “E’ vliva fe’ la porta ma l’Erc”


9 Gennaio 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Il 9 gennaio la Chiesa cattolica celebra San Giuliano. Ma non è quello onorato a Rimini detto anche San Giuliano di Anazarbo, (o di Tarso, per gli Ortodossi) la cui festa ricorre il 22 giugno. Questo San Zuglièn è bensì San Giuliano di Beauvais, martirizzato in Gallia nel 290 circa assieme ai fratelli di fede Luciano e Massimiano. 

Ben pochi a Rimini, e non solo, avrebbero saputo distinguere fra questi due Giuliano, e i tanti altri Santi che portano lo stesso nome: 22 in tutto, 16 dei quali tutti anteriori al V secolo, senza contare i Beati. Le cui storie si sovrappongono e confondono, fino a comporre veri rompicapo per gli agiografi.

Ad esempio, San Giuliano Ospitaliere, che sarebbe vissuto nell’attuale Belgio nel VI secolo e che forse è sepolto a Macerata, come Edipo avrebbe ucciso per errore i suoi genitori, per poi vivere in penitenza e carità. San Giuliano “di Rimini” sarebbe invece stato martirizzato in Cilicia (nell’attuale Turchia sud-orientale) nel III secolo. E con quale supplizio? Gettato in mare dentro un sacco pieno di serpi.

Non un’efferatezza qualsiasi, ma qualcosa che ricorda molto da vicino la poena cullei, la “pena del sacco”, che il diritto romano riservava al parricida, l’assassino di gentitori e parenti stretti: cucito in un otre di pelle con un cane, un gallinaccio, una vipera e una scimmia, poi gettato in acqua. La presenza contemporanea dei quattro animali non era tassativa; la scimmia per esempio non appariva certo nei tempi arcaici di Roma. Ma tutti avevano una forte valenza simbolica e la più chiara era quella della vipera: come scrive Plinio, si credeva infatti che la vipera femmina partorisse una piccola vipera al giorno per un totale di circa venti: le altre quindi, spazientite dall’attesa, uscivano dal fianco della madre uccidendola. Ne resta traccia nel proverbio diffuso in tutta Italia che il ravvennate Libero Ercolani raccolse in Romagna nella forma “Chi ha di parént ha di serpént”.

Eppure, a differenza dell’Ospitaliere, nella leggenda del San Giuliano “riminese” non esiste il minimo cenno a tale crimine: perché allora quel supplizio? La terribile pena sarebbe stata inoltre inflitta a un altro dei tanti Giuliano, il diacono di Terracina così giustiziato assieme a San Cesario, eletto poi a patrono dell’antichissima città. Personaggio quest’ultimo che i più ritengono realmente esistitito. Ma in nessuna storia che lo riguarda compare un parrcidio, nè suo nè di Giuliano.

San Giuliano di Tarso in un’icona ortodossa

Ma solo qualche cittadino particolarmente dotto si sarebbe potuto crucciare di queste contraddizioni. San Giuliano per il popolo si Rimini era quello giunto miracolosamente alla Sacramora e che si era preso gioco del diavolo facendogli costruire il meraviglioso Ponte.

Ponte di San Giuliano, e non, come pur stava scritto sui suoi spalti, dell’odiato Tiberio, nel nome del quale Gesù fu condannato e crocefisso. 

E l’Arco, l’altro simbolo della città? Nessuna leggenda sacra o profana lo circondava. Erano già prodigiosi a sufficienza la storia e il nome di Augusto, il modello perfetto di principe ideale anche per i cristiani, sotto il cui regno Dio si era fatto uomo. Sul quel miracolo in pietra fiorivano semmai i proverbi che, gonfi di orgoglio municipale, ne celebravano l’imponenza e l’unicità.

“Fè la porta ma l’Erc”, fare il portone all’Arco, significava un’azione impossibile, al di fuori della portata terrena. Quel che “e vliva fé la porta ma l’Erc”, voleva chiudere l’Arco con una porta, era dunque colui che si era imbarcato in un’impresa di un’ambizione sovrumana  e del tutto insensata. 

Il popolo non nutriva i dubbi che affliggevano e affliggono gli studiosi, se l’Arco sia sempre rimasto davvero una porta sempre aperta così come il primo imperatore lo aveva concepito.

Ciò nonostante, proprio in un 9 gennaio di tanti anni fa, uno di quegli studiosi cercava invece di sondarne i quesiti:

9 gennaio 1846 – A Rimini si scava per svelare i misteri dell’Arco d’Augusto