Rimining! Il neologismo sfornato da Palazzo Garampi nel 2015 (definito al momento del lancio ‘un brand che incarna uno stile di vita’) è ,da qualche anno, praticamente scomparso. C’è da dire, comunque, che fin dall’inizio il termine venne criticato dai pignoli per l’uso ‘maccheronico’ della lingua inglese dal momento che, chissà perché, avremmo dovuto considerare Rimini un verbo anziché una città. In tal caso la traduzione dall’inglese di Rimining sarebbe, nell’ordine: “Riminante” (participio presente) “Riminando” (gerundio) e “il Riminare” (infinito sostantivato). Qualcuno si prese pure la briga di chiedere a Google il significato di questo ‘brand’, col risultato di essere interpellato a sua volta dal motore di ricerca con un: ‘Forse cercavi Rimming’? Scoprendo che, con questa parola, gli inglesi indicano l’atto sessuale che gli antichi romani definivano ‘anilinguus’…. Per fortuna la diffusione progressiva del neologismo, utilizzato in più sedi, ha escluso ogni possibilità di equivoco. E infatti, dopo qualche tempo, Google interpretava correttamente il termine come ‘un modo nuovo di fare turismo’. A mio sommesso avviso, l’aver trasformato Rimini in un verbo inglese, con quella ‘ing’ dai tre significati, deve considerarsi una trovata geniale
Nell’immediato dopoguerra, i bambini, assolti gli obblighi scolastici, vivevano le loro giornate nei vasti spazi verdi della nostra città non ancora soffocati dal boom edilizio. Il mio ‘habitat’? Un largo terreno erboso, con al centro ancora la buca di una bomba, che da Viale Trieste (incrocio con Via Nazario Sauro) si estendeva sino a Viale Vespucci.in lunghezza e a Viale Cormons in larghezza. Eravamo i ragazzi di Campo Trieste. Su quel Campo si giocava a calcio ma ci si sfidava anche alla lotta, alla corsa, al tiro con la fionda, al gioco della lippa e a chi si arrampicava più veloce su un albero… Lì, insomma, ognuno di noi faceva semplicemente e nella maniera più sana, ciò che gli psichiatri dell’età evolutiva considerano tipico dei maschi tra gli undici e i sedici anni. “Mettere in gioco nei contesti sociali l’ energia vitale e pulsionale attraverso indispensabili esperienze corporee ad alto tasso di sfida con gli altri e di competizione con sé stessi.” (Alberto Pellai). Oggi alle sfide reali nei grandi spazi verdi sono subentrate quelle virtuali dei videogiochi vissute davanti al piccolo schermo. Generatrici di un isolamento destinato a cessare col sopraggiungere dell’età delle prime precoci quanto ingenue esperienze con l’altro sesso,
Un recente studio condotto a Barcellona ha comprovato che il fatto stesso di passeggiare sulla riva del mare apporta notevoli benefici alla nostra salute mentale e vascolare. La chiamano blu-terapia. Una cura che da fortunati abitanti di una città di mare sperimentiamo continuamente godendo del fruscìo della risacca, dell’odore della salsedine, del vario movimento delle onde, del volo fantasioso dei gabbiani e di certe stupende albe estive… nella speranza che a sfregiare l’astro sorgente non arrivino pale eoliche troppo ravvicinate. Alla terapia blu si accompagna, da noi, e altrettanto efficacemente, quella verde. Gli esperimenti condotti da ricercatori di alcune università statunitensi hanno infatti accertato (confrontando le reazioni dei residenti nelle grandi città, prima e dopo la predisposizione di nuovi parchi) che per chi viva a non più di 400 metri da uno di essi il rischio di sviluppare disturbi mentali si abbassa del 45%. Considerato che in quei luoghi ci si reca al lavoro in auto su strade di traffico e che, di conseguenza, la possibilità di usufruire di zone verdi è limitata, evidenti appaiono i vantaggi per la salute fisica e mentale di chi, come noi, è in grado di accedere al centro, al mare e alle periferie, a piedi, in
Lì per lì non avevo riconosciuto la graziosa ragazza che mi aveva affiancato (anche lei in bici) mentre come al solito (costeggiando il pittoresco laghetto del Palacongressi) percorrevo la ciclabile immersa nel verde che mi porta dritto in Tribunale. Si tratta di una collega. La quale, a mio giudizio, ha due innegabili meriti. Anziché in macchina, si reca al lavoro sulle due ruote passando per il Parco. E per di più fischietta con l’abilità consumata di un garzone del lattaio degli anni cinquanta. Incredibile davvero in un mondo in cui i ragazzi con le cuffie ignorano fatalmente il fai da te musicale col quale ci tenevamo compagnia quando, per dirla coi vecchietti dei film western “gli uomini erano uomini e i cavalli erano cavalli”… Professionalmente non ci siamo ancora incontrati. Né avevamo mai avuto occasione, nelle affollate aule tribunalizie, di scambiare due parole. Ma il velocipede, si sa, è socializzante. - Sei davvero una mosca bianca! Vai in bicicletta quando tutti i tuoi coetanei usano la moto o l’autovettura e, soprattutto, sai fischiettare! E bene, anche! -Beh, mi è sempre piaciuto farlo! Mi ha insegnato mio nonno, che era bravissimo… - Alla tua età te lo puoi anche permettere. Invece io, che ho cominciato a a cinque
Un modesto contributo ai numerosi omaggi che la nostra città ha riservato al suo figlio più illustre nel trentesimo anniversario della scomparsa. Quando si rese conto che il termine ‘fellinesque’ faceva ormai parte del linguaggio corrente, Federico Fellini osservò scherzosamente, nel corso di una intervista, che questo aggettivo poteva essere tradotto nel romanesco ‘fregnacciaro’. Fregnacciaro. A Rimini diciamo ‘sburone’… Bruno Sacchini, attento osservatore degli usi e costumi malatestiani, sostiene, in un suo saggio, che il riminese tipo altro non è che un “guascone creativo, un folle ludico, uno sburone cui piace dar l’assalto al cielo e sfidare il mondo intero pur di dimostrare che come lui non c’è nessuno”. E aggiunge che rappresentante all’ennesima potenza di questo tipo umano sarebbe, per l’appunto, Fellini. Sono perfettamente d’accordo con l’Autore dell’esilarante piece teatrale “Federico!”. E continua a stupirmi il fatto che, nella nostra città, vi sia ancora chi sostiene che il Regista, avendo lasciato Rimini per Roma all’età di diciannove anni, non sia ‘uno dei nostri’, quasi che i primi vent’anni della vita non rappresentino quelli fondamentali per la formazione del carattere e l’esplodere della creatività. Per fortuna abbiamo cominciato piano piano a capire di che pasta siamo fatti. E a comprendere, di conseguenza, che la
Prima mattina. Il mare d’ottobre è limpido e calmo, la spiaggia deserta. Dopo un’ora di lenta corsa sulla rena compatta del bagnasciuga, il ritmo cadenzato dei suoi passi è diventato un ‘mantra’. Pof-Pof-Pof-Pof… Om–Mani-Padme-hum. La formula sacra dei Veda
17 ottobre 1859. E’ appena trascorso il 164° anniversario da quando il Consiglio Municipale di Rimini deliberò l’iscrizione al patriziato cittadino di Giuseppe Garibaldi. Auliche e commosse le parole che illustrano il riconoscimento tributato al “prode Guerriero” reduce dalle clamorose vittorie riportate con i suoi Cacciatori delle Alpi. Ma è soprattutto la risposta nobile e calda del Generale a colpirci e a gratificarci. “Non al merito mio, ma all’idea sublime di redenzione patria ch’io propugno e che propugnerò certamente tutta la vita, io devo la simpatia di questa magnifica popolazione, l’onorevole dono con cui mi avete fregiato oggi. Comunque sia, io vi devo tutta la mia gratitudine, e se la fortuna corrisponde alla mia volontà di servire la causa nazionale, io onorerò la cara mia città di Rimini, che sì generosamente m’accolse cittadino suo. Sono con affetto Concittadino Vostro G. Garibaldi”, Parole che i Repubblicani Riminesi hanno voluto orgogliosamente eternare posizionando in Via Garibaldi nella primavera del 2007 (bicentenario della nascita), una bella lapide che le riporta. Ciò che è successo dopo è davvero di pura marca malatestiana! Già, perché come tutti sanno, fin dai tempi della Repubblica Romana (1849), Pio IX fu il più acerrimo nemico di Garibaldi. E fu proprio
A proposito del mio ‘A Rimini una via per Zanza’, ritengo opportuno riprodurre alcune interessanti osservazioni ricevute via mail, in merito all’enorme distacco tra il ‘birrismo’ di massa degli anni 60 e i pochi folcloristici play boy del ventennio successivo (quello della emancipazione delle italiane e della ‘marcia indietro’ determinata dal terrore AIDS). Mario M., appassionato cinefilo, considera emblematico del latin lover della prima fase il Mastroianni della Dolce Vita (1960) che identifica in una stupenda, sognante svedese (Anita Ekberg) la sua Dea dell’Amore. Mentre alla seconda fase apparterrebbe il Casanova Felliniano che consuma il suo ultimo rapporto con una bambola meccanica. Umberto F. (membro all'epoca della mitica compagnia del Bar Azzurro di Piazza Tripoli ora Marvelli) mi conferma in una divertente missiva che il sesso fast food alla Zanza (detto anche instant sex da discoteca) era impensabile al tempo dei dancing. E in merito a certe improbabili ‘sparate ‘ statistiche, che ‘I ragazzi, allora, restavano con la stessa finchè non partiva, anche perchè finivano spesso per innamorarsene. A piazza Tripoli in diversi si sono sposati con svedesi…”. Vero. La comunità vichingo-malatestiana è da noi numerosa e, almeno per quanto mi risulta, felicemente accasata. Ma erano i tempi del Fred Buscaglione di: 'Ricordati