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La pizza che fa meglio alla salute? Non la marinara né la margherita, e nemmeno quella con le verdure grigliate. La pizza più salutare è quella ordinata al telefono da una riminese lo scorso mercoledì sera. Perché il numero che aveva composto non era quello di una pizzeria, ma quello della polizia. Che ha capito subito che non si trattava di un errore, ma di un’urgente richiesta d’aiuto. E infatti la volante arrivata all’indirizzo indicato ha trovato quel che si aspettava: una donna disperata e suo figlio in balia di un uomo ubriaco e violento, che è stato prelevato e portato in carcere. Non si sa se i due poveretti poi si siano ordinati davvero una pizza o siano andati a letto senza cena, ma sicuramente hanno passato una notte tranquilla, senza urla né botte, forse la prima da mesi. Quante notti così saranno concesse a quella donna e a quel ragazzo, prima che il loro carnefice venga rilasciato e l’incubo ricominci? Viene da chiederselo, alla luce delle due tragedie avvenute questa settimana, due duplici femminicidi, rispettivamente a Vicenza e a Sarzana, commessi da uomini di accertata pericolosità, uno dei quali doveva essere già in carcere da febbraio per rapina, e ricordando le

Abito qui da abbastanza tempo da sapere che di tutto quello che riempie Rimini di gente pagante non si può parlare male, anche se procura qualche disagio alla cittadinanza, dagli ingorghi stradali agli approcci avvinazzati. Chi capitale del turismo vuol comparire, qualche cosa deve soffrire – e va bene. E oggi “bene” è la parola chiave, perché “bene”, in inglese si dice “well”, che però si usa anche come particella introduttiva in una frase, tipo “bè, insomma”. E questo è il weekend di Rimini Wellness, la grande fiera del

Xavier, Nevaeh, Amerie, Uziyah, Eva, Irma… Avevano bellissimi nomi e bellissimi volti le 22 vittime della strage di Uvalde, Texas. Diciannove bambini fra gli otto e i dieci anni, due maestre eroiche che hanno tentato di proteggerli dai colpi sparati da un ex alunno della loro scuola, penetrato nell’edificio brandendo un fucile d’assalto e lasciato libero di agire dalla polizia, inerte dietro una porta chiusa. Il ventiduesimo caduto è il marito di una delle insegnanti, stroncato da un infarto sulla bara di sua moglie. Il killer aveva diciotto anni e si chiamava Salvador Ramos. Anche Salvador è un bel nome. È uno degli appellativi di Gesù, che secondo i cristiani ha salvato l’umanità morendo sulla croce – e Gesù amava i bambini. Anzi, fra tutti i profeti, filosofi e fondatori di religioni, è quello che li amava di più. Ramos invece i bambini li odiava e non ha salvato nessuno, nemmeno se stesso. La beffa contenuta nel suo nome è amarissima, ma non atroce quanto le reazioni della politica e dell’opinione pubblica americana, sempre uguali ogni volta che un individuo armato, più o meno psicolabile, fanatico o incompreso, entra in un luogo pubblico e ammazza persone a caso. Ci sono i familiari delle

Sarebbe bello che Lando Buzzanca, protagonista nel 1971 del film Il vichingo venuto dal Sud, facesse causa a David Fabbri, il “Vikingo” venuto dallo spogliarello. Forse dovrebbero citarlo per diffamazione anche gli autori della serie The Vikings e pure qualche vichingo sopravvissuto ai nostri giorni (pare che sulla costa meridionale della Svezia, nel villaggio di Foteviken, esista ancora una piccola comunità tornata allo stile di vita dei progenitori, eccettuata la pessima abitudine di razziare e massacrare i paesi vicini). Il Fabbri, maturo ex-stripper forlivese che si fa chiamare Vikingo perché «mix fra Beppe Maniglia e la buonanima di Zanza» sarebbe troppo lungo, non solca audacemente i mari in cerca di bottino, si limita a scorrazzare in Romagna a caccia di notorietà con sparate violente a sfondo fascista, razzista e omofobo, tipo lanci di banane contro il ministro Kyenge e affissione abusiva a Rimini di manifestini pro-zio Benito (oltre alle presunte ascendenze scandinave, Fabbri vanta parentele mussoliniane). Probabilmente l’unica razzia il Vikingo l’ha fatta in un magazzino di abiti religiosi usati, visto che da qualche anno sfoggia una tonaca bianca tipo Zenone dell’armata Brancaleone e si fa chiamare diacono-esorcista. Ma l’abito, nel suo caso, fa il monaco, perché se ne va in giro

Cari sammarinesi, non sapete che dispiacere non aver potuto votare Achille Lauro all’Eurovision. Giuro, se avessi potuto l’avrei fatto, senza fisiologico campanilismo riminese né astio verso l’artista romano. Anzi: pensavo che la sua esibizione fosse così convincente da non aver bisogno dei miei voti, e che la simpatia degli europei verso la Repubblica-Lilliput avrebbe fatto il resto. Non avere visto San Marino in finale ieri sera mi ha addolorato, anche perché se Achille avesse vinto – e perché no? Il suo Stripper ha elargito abbastanza lustrini, coreografie conturbanti e fluidità sessuale per conquistare i cuori degli europei – la prossima edizione dell’Eurovision sarebbe spettata a voi, con allettanti ricadute positive sulla provincia che si stende ai piedi del Titano. Un’occasione persa, insomma. Rimini in compenso porta a casa dall’Eurovision una mezza vittoria morale: è stata protagonista di uno dei più bei filmati promozionali sui “gioielli d’Italia” che precedono le performance dei cantanti. La nostra città è stata proposta attraverso un collage di scorci così affascinanti che io che ci abito ho messo qualche secondo a riconoscerla, figurarsi gli stranieri che ci sono venuti in vacanza e pensano che Rimini vada dal lungomare alla ferrovia, e che quella a monte di piazzale

Ho l’impressione che fino a giovedì scorso non pochi riminesi credessero che un’adunata nazionale di alpini fosse qualcosa di simile al Meeting di Cl, al raduno dei pentecostali o al congresso della massoneria: qualcosa di molto grosso e importante, ma che alla fin fine coinvolge la città solo fino a un certo punto, e di cui beneficiano soprattutto alberghi, bar e ristoranti. Una declinazione più pittoresca del turismo congressuale o fieristico, insomma. A giudicare dalle tante facce di concittadini piacevolmente o spiacevolmente sbalordite, l’esperienza è stata un po’ uno choc anche per chi è un fan delle nostre truppe da montagna e ha accolto il raduno con curiosità, spirito di accoglienza e con un afflato di amor patrio che ha fatto sorvolare su ingorghi e viabilità impazzita. Probabilmente era dal 1945 che a Rimini non si vedevano tanti militari in giro. Ce ne sono letteralmente dappertutto, a tutte le ore, con l’aria di sentirsi a casa loro più di noi. E dove non li vedi li senti comunque nell’aria, con le loro musiche, i loro cori e un vago sentore alcolico che nemmeno la pioggia è riuscita a cancellare. Perché gli alpini sono proprio come ce li hanno sempre raccontati: caciaroni, sbevazzoni,

Essendo cresciuta in Friuli, dove tutti hanno almeno un alpino nell’albero genealogico, le penne nere mi stanno simpatiche. “Sul cappello sul cappello che noi portiamo” è una delle prime canzoni che ricordo, me la cantava mio babbo quando ero piccolissima. Lui non ha fatto l’alpino e non ha un ricordo epico della sua naja, ma anche chi non ha un particolare feeling con armi e divise guarda gli alpini con occhio rispettoso e benevolo. Non perché siano meno soldati degli altri, ma perché nel nostro immaginario sono legati all’idea del sacrificio, della pazienza, della lealtà, di uno spirito di corpo temprato dalle sofferenze più che dalle imprese guerresche. Quando cantiamo le canzoni degli alpini (e due o tre le conosciamo tutti) ci dimentichiamo che sono canti di guerra e ci sentiamo dentro qualcosa che ci appartiene e ci commuove, anche se siamo nati e cresciuti in tempo di pace a due passi dal mare, e in montagna ci siamo stati solo in vacanza. Sarà bello veder sciamare per le nostre vie migliaia di penne nere, affluite a Rimini per un raduno che non potrà non svolgersi nel migliore dei modi, considerato che, causa pandemia, abbiamo avuto un anno in più per prepararlo. Perché,

Lo so che non è proprio quello di cui bisognerebbe parlare la mattina di Pasqua, ma ve la ricordate la mucillagine, il tappeto maleodorante di alghe che ha funestato il turismo riminese nel 1990? Dopo più di trent’anni, fa ancora quasi paura nominarla, come se solo evocarne il nome – e in un momento così delicato per la ripresa dell’industria delle vacanze dopo la pandemia – rischiasse di materializzarla di nuovo. La paura è comprensibile. Ci può essere qualcosa qualcosa di peggio, per una città votata al turismo balneare, di una puzzolente poltiglia marrone che rende il bagno in mare un’esperienza tipo palude Stigia dell’Inferno dantesco? Ebbene sì. Il peggio è una spiaggia disseminata di siringhe sporche nascoste nella sabbia, pronte a pungere il piede del bagnante che fugge schifato dall’acqua. Che è proprio quello che, a quanto pare, ci siamo risparmiati in quegli anni, stando alle rivelazioni del mafioso Gaspare Mutolo, sicario affiliato al clan dei Corleonesi. Scherano di Totò Riina, un’impressionante somiglianza con l’Aldo Giuffré di La ragazza con la pistola, a quei tempi Mutolo, oltre che ad ammazzare chi faceva sgarri al boss si dedicava ai furti nelle ville del Nord, aveva una base proprio a Rimini, in via Garibaldi,

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