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Lia Celi: "Questa è l’estate dei miracoli, e a forza di «non succede, ma se succede…»"

Lia Celi: "Questa è l’estate dei miracoli, e a forza di «non succede, ma se succede…»"

È una chiesa? È un museo? Un grande albergo? No, caro turista che interroghi il passante indigeno indicandogli la solenne mole dell’edificio che occupa il lato di piazza Cavour rivolto a occidente. È un teatro, come si può desumere (aguzzando la vista) dalla scritta in latino sulla facciata… Ehm, veramente no. Quella scritta, «aere civium ingenium ecc. ecc.» significa «con denaro pubblico e con l’ingegno di Luigi Poletti 1857». Spiega chi ha pagato l’edificio, chi l’ha progettato e quando è stato ultimato, non a che cosa serve. Ci sono teatri che si dichiarano subito, così, senza giri di parole: il Duse di Bologna, l’Opera di Roma, il Carlo Felice di Genova, per citarne alcuni, lo portano scritto a chiare lettere sopra l’ingresso. Altri, come il Regio di Parma o la Scala di Milano, mostrano un’aristocratica reticenza, degna di leggendari templi della lirica che non hanno bisogno di presentazioni. Ma in caso di necessità, a rivelare ai meno ferrati la loro destinazione sono le locandine che ne decorano il porticato, annunciando il cartellone della stagione in corso e i grandi eventi passati e futuri che si sono consumati sui loro augusti palcoscenici. È bello fermarsi davanti alle locandine, sbirciare i nomi degli artisti,

Un consiglio ai bagnanti che affollano la Riviera: abbondate con le docce in spiaggia. Non eviterete solo i colpi di calore scatenati dall’infernale anticiclone Lucifero, ma anche imbarazzanti equivoci che potrebbero rovinarvi la vacanza. Perché più sabbia avete addosso, più rischiate di essere scambiati per borseggiatori da ombrellone. Pare che la tecnica più gettonata dai ladruncoli dell’estate 2021 sia per l’appunto quella di impanarsi abbondantemente di sabbia e strisciare così mimetizzati fra i lettini per agguantare borse, cellulari e portafogli incautamente appoggiati dai turisti sul ripiano dell’ombrellone o sul bordo della sdraio. I carabinieri riminesi l’hanno chiamata “tecnica della salamandra”, denominazione che colpisce sicuramente la fantasia, ma non è centratissima dal punto di vista zoologico, e viene da pensare che i militi non abbiano visto abbastanza documentari del National Geographic. È vero che le salamandre strisciano ventre a terra, al pari delle lucertole, dei gechi e degli alligatori, ma le similitudini con i nostri borseggiatori finiscono qui. La salamandra infatti vive in ambienti freschi e umidi, prevalentemente boschivi, è un animale notturno e circola di giorno solo se ha piovuto molto, e quindi non ha niente a che fare con le sabbie dei deserti o delle spiagge. Dove peraltro verrebbe subito notata,

«Cubista, cubista, come balli tu io non ho ballato mai»: la citazione da «Fossi figo» di Elio e le Storie Tese - struggente, a suo modo - sorge spontanea alla notizia della morte di Renato Ricci, il tycoon del divertimento in Riviera negli anni d’oro. Ma sarebbe il caso di chiamarlo il Picasso delle discoteche, perché se il grande Pablo negli anni Dieci del ‘900 inventò il cubismo, Ricci negli anni Ottanta ha inventato le cubiste. Non perturbanti demoiselles d’Avignon con gli occhi storti e il naso ribaltato, ma conturbanti danzatrici dai corpi perfetti e molto scoperti, che ballano solitarie su grandi cubi per «scaldare» l’atmosfera sulla pista. Figuriamoci se anche quest’idea - semplice, efficace e «virale» quando ancora l’aggettivo era limitato alle brutte malattie - non veniva in mente a un romagnolo. A dire il vero non è una vera e propria «invenzione» - i go-go dancers ambosessi impazzavano negli Usa fin dagli anni Sessanta - ma una versione più essenziale e, in un certo senso, asettica dell’originale americano: la cubista danza in cima a un cubo che la rende distante e intoccabile, come una specie di idolo o di feticcio, l’incarnazione dello spirito della discoteca, un luogo in cui si

«Quando vinco sono lo sciatore di Bologna, quando perdo sono il carabiniere di Sestola» amava dire Alberto Tomba, quando ancora non conosceva la parte peggiore: a consegnarlo all’immortalità pop non sarebbero state le sue vittorie sulla neve, ma il ruolo di protagonista nel cult-movie trash Alex l’ariete. Succede un po’ la stessa cosa con gli atleti di San Marino: quando perdono sono sammarinesi, figli della repubblica-canaglia che si vaccina col vaccino di Putin e ci ha tradito all’Eurovision Song Contest e via brontolando, mentre quando vincono sono quasi italiani, anzi, praticamente riminesi. Nel caso di Alessandra Perilli, bronzo a Tokyo2020 nel trap femminile e argento nel trap a squadre (prime due medaglie conquistate da San Marino in un’Olimpiade), non si tratta di un “praticamente”: lei a Rimini c’è proprio nata. (Per inciso: la “trap” di Alessandra non è quella di Sfera Ebbasta e Ghali, ma è il nome inglese e più accattivante della vecchia “fossa olimpica”, specialità di tiro a volo). Ma essendo di madre sammarinese, nel 2009 la neo-campionessa, insieme a sua sorella maggiore Arianna, anche lei tiratrice, ha deciso di gareggiare per il Titano: piccolo è bello, anche perché oltre alle competizioni maggiori, si può partecipare ai Giochi dei Piccoli

Va bene, il sarcastico invito twittato da Roberto Burioni, «facciamo una colletta per pagare Netflix ai novax quando dal 5 agosto saranno chiusi in casa come dei sorci», non è molto professorale. Soprattutto perché sottovaluta l’intensa vita notturna dei sorci, che dopo il tramonto hanno sempre scorrazzato impunemente alla faccia del coprifuoco, e continueranno a farlo anche senza green pass. Comprensibile che Giorgia Meloni, avendo raccolto l’eredità politica di quelli che si diceva condividessero uno degli habitat preferiti dai sorci, le fogne, sia insorta contro il linguacciuto virologo. «Questa non è scienza», lo ha rimbeccato, «frasi del genere servono solo a farsi invitare in televisione e appagare il proprio bisogno di apparire». Possiamo dubitare delle competenze di Meloni in fatto di scienza, ma quanto a frasi coniate apposta per colpire il pubblico e i media la signora ne sa almeno quanto Burioni. Tant’è vero che, da fiera vaccinista («una delle conquiste più importanti, la vaccinazione obbligatoria è lo strumento che la comunità scientifica ci dà per sconfiggere patologie solo apparentemente sconfitte per sempre», 2018) è diventata paladina della libertà di non vaccinarsi («green pass ultimo passo verso una società orwelliana», luglio 2021) per poi arretrare, nelle ultime ore, verso una più limitata

Rimini, Notte Rosa, mattine grigie. Come quelle in cui devi andare negli uffici dell’Anagrafe di via Caduti di Marzabotto per farti rilasciare la carta d’identità elettronica o un certificato che puoi ottenere solo recandoti al caro vecchio sportello, e ti ritrovi scagliato in piena era pre-tecnologica, tra malintesi e code sotto il sole. Il Covid, che ha reso «smart» tante cose, ha complicato alcuni aspetti della burocrazia pubblica, riproponendo lungaggini e inconvenienti che sembravano archiviati per sempre. È una specie di ritorno del rimosso, un passato di inefficienza e macchinosità che credevamo di avere superato, e che riemerge per metterci il dubbio che la modernità sia solo una patina e che in realtà non ci siamo molto allontanati dalla famosa lettera di Totò e Peppino, «punto, due punti e punto e virgola, abbundantis abbundandum». Un passato che riemerge sotto forma di un burbero usciere in maniche di camicia da film neorealista, e il cui concetto delle relazioni con il pubblico ricorda certe scene di Siamo uomini o caporali? Ora, è bello che grazie al Covid, che pure ha flagellato tanti settori del mondo del lavoro, un onesto padre di famiglia abbia trovato un’occupazione in un ufficio pubblico. E va anche detto che

Nella domenica più carica di aspettative per lo sport azzurro, la tristezza collettiva - genuina, sincera, non di facciata - per la scomparsa di Raffaella Carrà è addolcita dal pensiero che in Paradiso noi italiani abbiamo una «santa» in più. Senza aureole e senza fumi di incenso, almeno per ora, ma quelli che vorremmo chiederle oggi, in fondo, sono miracoli squisitamente laici, caldi, allegri e spumeggianti come i suoi show. Carrambate, più che miracoli. Anzi, una ce l’ha già regalata: carràmba, che sorpresa vedere un italiano in finale a Wimbledon per la prima volta nella storia, nello stesso giorno in cui anche la Nazionale di calcio si gioca la finale degli Europei a Wembley, a pochi chilometri di distanza, con gli inglesi per la prima volta nella loro storia. Matteo Berrettini è un atleta senza grilli per la testa o atteggiamenti da divo, attaccato alla famiglia e dotato di una simpatia naturale, proprio come Raffa; e anche i ragazzi di Mancini, in fondo, piacciono a tutti, e non solo in patria, per la semplicità e l’allegria che diffondono, mentre macinano un successo dietro l’altro, come ha fatto la regina della tivù in oltre mezzo secolo di carriera. Sono le migliori qualità degli italiani,

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