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Stefano il torrepedrino che ha fatto il bagno in mare a mezzogiorno di Capodanno: eroe o scriteriato. Lo so, il tuffo il primo di gennaio è una tradizione diffusa dal mare del Nord al Mediterraneo, ma non ho mai capito dove inizia la sfida un po’ pazza e beneaugurante per l’anno appena iniziato e dove inizia il bisogno di un trattamento choc per riprendersi dalle sbronze di san Silvestro. A dire la verità, io non ho un gran rapporto con l’acqua sotto i 25 gradi nemmeno d’estate, e penso che sia buona al massimo per l’irrigazione. Datemene un bicchiere e sono a posto. La civiltà dell’acqua calda mi ha rammollito, e alla prospettiva di un bagno o doccia fredda, tutte le mie fibre si irrigidiscono come gatti arrabbiati, anche se dicono che rassodi i tessuti e fosse il segreto di bellezza di tante maliarde della storia, da Diana di Poitiers all’imperatrice Sissi. Per questo provo una certa ammirazione per la tempra di chi alle dodici del primo gennaio, anziché guardarsi in vestaglia il concerto di Capodanno, si mette in mutande e corre a buttarsi in acqua. Certo però che mai il tuffo in mare sembra incomprensibile quanto all’alba del 2021. Metti che,

L’hanno chiamato “il regalo di Natale arrivato da Pompei”. La contraddizione fra la ricorrenza cristiana e il mittente pagano è solo apparente: se l’evento commemorato il 25 dicembre è la nascita di Gesù, la data in cui la tradizione l’ha collocato è quella in cui fino al III secolo si celebrava la nascita del dio Sole, a ridosso delle feste dei Saturnalia, in cui i Romani si scambiavano doni chiamati “strenae”. Niente di strano se proprio in questi giorni Pompei, città diventata sinonimo di catastrofe, invii un regalo a un Occidente che sta affrontando una catastrofe, seppure di altro genere. Regalo indovinato e significativo: un “thermopolium”, cioè, tecnicamente, una tavola calda, situato nella Regio V della città sepolta. Emerso nel 2019, è stato scavato e studiato anche durante i mesi del lockdown, per poterci offrire nell’ultimo scorcio di questo tremendo 2020 una visione dei suoi affreschi dai colori smaglianti e della sua struttura così pratica e moderna, simile ai self-service degli autogrill. Mentre tutta l’Italia è in zona rossa, con bar e ristoranti chiusi, l’unico locale aperto è una tavola calda vecchia di venti secoli, nel cui bancone, provvisto di scomparti per le varie pietanze, ci sono ancora avanzi di cibo. Nel locale

Cosa mi fa più rabbia nel manifesto dell’Associazione Pro-Vita contro la pillola abortiva, che il Comune ha giustamente bandito dai muri di Rimini? Ovviamente, da sostenitrice del diritto all’aborto, non condivido i fini della campagna, anche se ogni opinione è lecita e deve poter essere liberamente espressa e argomentata. Non mi è mai piaciuto il monopolio sul termine “vita” che gli antiabortisti di tutto il mondo si sono accaparrati. Come se chi la pensa diversamente fosse pro-morte, e non a favore di una genitorialità consapevole, e, in ultima analisi, dell’autodeterminazione della donna, che non è una macchina di carne predisposta da Dio per l’emissione regolare di neonati, una specie di Bimbomat dove infili un seme e legittimamente di aspetti di prelevare un pargolo dopo nove mesi. L’aborto deve essere gratuito, sicuro e soprattutto raro, requisito, quest’ultimo, che andrebbe assicurato con un altre cose che i Pro-Life detestano, e cioè una corretta educazione alla salute sessuale fin dalle scuole elementari, il potenziamento dei consultori, la disponibilità di anticoncezionali moderni e sicuri. Ma il discorso è lungo, e poi a dire il vero ci sono altre cose che mi disturbano nel manifesto dei Pro-Vita, che mostra una fanciulla biancovestita, esanime, con una mela morsicata in

Certo che come pensata pubblicitaria è ottima. Se qualcuno fino a ieri non aveva mai sentito parlare dell’Altro Bar di Riccione, oggi lo conosce: è il locale dov’è proibito parlare di Covid. Solo che sintetizzata così, così, schiaffata nuda e cruda sulle locandine, la notizia potrebbe far pensare a una taverna di negazionisti che ancora credono si tratti di una banale influenza strumentalizzata dai poteri forti e pompata dai media a loro asserviti. Un posto dove, se entri con la mascherina, ti prendono come minimo a male parole, e se cerchi l’igienizzante il barista ti butta fuori, alitandoti in faccia. E invece no: come hanno spiegato i gestori, si tratta di semplice saturazione: “Si può parlare d’altro, almeno per il tempo di un caffè”. E’ un piccolo servizio in più che offrono alla loro clientela: cinque preziosi minuti di stacco dal flusso di virus-mania in cui siamo immersi, una piccola pausa per igienizzare il cervello. Sembra una cosa da niente, ma oggi è quasi più facile creare un ambiente Covid-free dal punto di vista psicologico che da quello comunicativo. E per chi lavora in un bar potrebbe servire come necessaria autodifesa mentale. Tutti noi durante il giorno parliamo spesso di coronavirus, l’argomento

Quest’anno la ricorrenza più dolce e attesa dell’anno non è uno sport per signorine. Non è il solito fiume zuccheroso e defatigante che ci ghermisce a fine novembre e ci trascina con sé, sempre più impetuoso, rumoroso e irresistibile, fino a quando, il 24 dicembre, non ci sbatte su una sedia davanti alla tavola imbandita per il cenone con i parenti. Il Natale 2020 è una grande lezione. Avete presente quel monito in cui nessuno di noi ha mai creduto davvero, «attento ai tuoi desideri perché potrebbero avverarsi»? Eccolo qui, realizzato sotto i nostri occhi. Quante volte ci siamo lamentati delle feste? Delle corse nei negozi affollati per acquistare i regali in cui se ne va tutta la tredicesima, per chi di noi ha la fortuna di riceverla. Di dover assistere agli interminabili saggi e alle stucchevoli recite natalizie dei figli. Delle corvée in cucina per preparare pasti per un mare di parenti, metà dei quali non possiamo sopportare, ma dobbiamo ospitare sotto il nostro tetto. Delle trasferte nelle seconde case fredde e sporche, in paesi di montagna dove tutto è carissimo, dal pane allo skipass, ma non cade un solo fiocco di neve fino al giorno dopo che siamo partiti,

Ancora non è arrivato in Italia e già se ne vedono gli effetti collaterali: nervosismo, accentuata litigiosità, discorsi a vanvera. Se il vaccino anti-Covid stimola la risposta anticorpale dal virus con la stessa efficacia con cui eccita la dabbenaggine umana, quando finalmente potremo vaccinarci saremo tutti al sicuro dal virus, se saremo sopravvissuti alle conseguenze della stupidità. E’ da marzo che aspettiamo con ansia l’arma vincente che protegga i nostri anziani, permetta ai nostri ragazzi di tornare a una vita (quasi) normale di studio e di socialità e riattivi, insieme agli spostamenti e alle gioie del tempo libero, anche i commerci e l’economia in generale. Ma adesso che il vaccino, anzi, i vaccini, ci sono, molti - un italiano su sei, pare - fanno gli schizzinosi e tirano fuori mille perplessità, in una gamma che va dalla ragionevole prudenza al complottismo più scocomerato: sì, ma le conseguenze a lungo termine? Non è che queste case farmaceutiche dai nomi da romanzo distopico vogliono guadagnarci qualcosa? E se poi insieme al vaccino ci iniettano un microchip per asservirci al malvagio complotto di Soros in combutta con gli alieni? Nel primo infuriare del coronavirus molti pensavano che uno dei suoi pochi effetti positivi, forse l’unico, sarebbe stato

Jeff Bezos, il padrone di Amazon, rosica. Asos e Zalando, i negozi di abbigliamento online più gettonati, masticano amaro. Anche in tempi di Covid, a Rimini il low-cost non passa sul digitale, ma resta in presenza, anzi, in piazza: il mercato ambulante bisettimanale, almeno per ora, resta al suo posto. A quanto pare le nostre amate bancarelle rispettano i requisiti previsti dall’apposita ordinanza regionale, perché sono distanziate, disposte in un’area perimetrata con entrate e uscite differenziate, e c’è una vigilanza pronta a disperdere gli assembramenti. E così, mentre nei paesi del Nord vengono annullati uno dopo l’altro i tradizionali mercatini natalizi, immancabile e seguitissimo appuntamento invernale, noi ci teniamo l’unico mercato all’aperto non pericoloso per la salute e altamente benefico sia per l’umore che per le tasche. Buona parte della popolazione maschile di Rimini non sarà d’accordo: il mercato è il regno delle donne, il vero Paradiso delle signore, e sono pochi gli uomini che lo apprezzano. Del resto espone solo merci che interessano a noi, abbigliamento, calzatura, casalinghi, piante e fiori; di maschi ce ne sono, di ogni età e nazionalità, ma stanno per lo più dietro al bancone, e hanno verso le clienti un atteggiamento che, in tanti anni di

L’illusione di poterne “uscire migliori” l’abbiamo già archiviata da un pezzo, e non ci vogliamo ancora rassegnare all’idea di uscirne peggiori. Ma i produttori del settore abbigliamento una certezza ce l’hanno: ne usciremo tutti più sciatti. Già, perché se i cambiamenti morali sono difficilmente quantificabili e soprattutto relativi, quelli nel look e nella cura di sé sono sotto gli occhi di tutti. O meglio: proprio perché con il lockdown e il confinamento il nostro look non è più sotto gli occhi di tutti, abbiamo cominciato a disinvestire tempo, denaro e attenzione rispetto al guardaroba. A che serve rinnovarlo o aggiornarlo con qualche outfit alla moda quando, un decreto dopo l’altro, le occasioni sociali si sono ridotte a zero? Anche chi la sera non si tuffava nella movida ci teneva a far bella figura in ufficio o a scuola. Nella prima ondata di smartworking e di teleconferenze c’era una certa attenzione almeno alla parte superiore del corpo, quella che veniva inquadrata nello schermo. Dalla vita in giù tutto era permesso - pantaloni della tuta, bragoni del pigiama, gli antiscivolo con gli orsetti, plaid - ma quel che spuntava dalla scrivania non doveva essere troppo casual, i capelli almeno pettinati e il viso con

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