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Il detto “mors tua vita mea” è molto crudele, soprattutto quando si declina in un contesto che dovrebbe essere spensierato, come quello delle vacanze, dove si traduce in “attentatus tuus, turista meus”. Perdonate il cinismo, ma a quanto pare è questa la causa del calo delle prenotazioni per le mete vacanziere italiane per l’estate 2019, il primo in cinque anni. Non è colpa del governo gialloverde o della piega sovranista e nemmeno dei migranti, che siano i 500mila indicati da Salvini un anno fa o i 90mila di cui ha parlato prima delle Europee. Il problema è che una delle maggiori attrattive del nostro Paese negli ultimi tempi era di non essere la Tunisia, l’Egitto, la Francia o l’Inghilterra, teatro di stragi terroristiche firmate (o come minimo rivendicate) dall’Isis. L’Italia era considerata più sicura di altre mete – sui motivi circolano le tesi più varie, dalla presenza di papa Francesco, con cui alla fin fine i musulmani vanno d’accordo, all’efficienza della nostra intelligence, al puro e semplice culo – e continua a essere sicura. Ma la memoria degli uomini è labile, purtroppo e per fortuna. E come cantavano Dalla e Morandi, «la sofferenza tocca il limite e cancella tutto, e rinasce un fiore

Come sarà stata «La piadina» canadese? A due spioventi, come la tenda? A forma di foglia d’acero? Rossa come le giubbe rosse del Saskatchewan? A me resta un po’ di curiosità per questa versione transoceanica della nostra specialità, che forse sopravviverà, ma non potrà chiamarsi piadina, visto che il Consorzio di Promozione e Tutela della piadina IGP è riuscito a far bloccare il marchio presso l’Ufficio per la Proprietà industriale canadese. Sarebbe stato l’ennesimo caso di sfruttamento dell’«Italian sounding», dopo il Parmesano, il Prisecco e la Pasta Schuta: denominazioni finto-tricolori per prodotti realizzati con ingredienti magari pure sani e genuini, ma non originali, che se li leggesse Oscar Farinetti gli verrebbe un coccolone. Ma all’estero, specie in Nordamerica, non sono come noi. Non vanno tanto per il sottile quando si tratta di cibo. Sono cresciuti con sapori artificiali, industriali, carichi di zucchero e di aromi, tutto il cibo che hanno mangiato in vita loro è stato acquistato pronto o semipronto in un supermercato, oppure recapitato da un rider, o consegnato attraverso la finestrella di un drive-thru. Nessuno perderebbe una mezz’ora a discutere con il salumiere o il formaggiaio sulla stagionatura del prosciutto o sul tipo di caglio impiegato per il pecorino, come succede

Ebbene sì, io l’ho provata, la cannabis. La prima volta alle elementari: la corda da saltare che usavo da bambina, comprata in ferramenta, grossa e resistente come una gomena da barca (forse era quella la sua vera destinazione) era fatta di canapa doc. E in effetti faceva male, specie quando te la beccavi sulle gambe – erano tempi in cui le bambine non portavano leggings, ed erano rari pure i pantaloni: a scuola si andava sempre in gonna e calzettoni al ginocchio, anche d’inverno. E faceva male ai contadini di Romagna, area di massima produzione e lavorazione della canapa in Italia (la Corderia di Viserba). Un lavoro malsano e disumano in tutte le sue fasi. E chi, nel pieno dell'estate, dopo la maleodorante macerazione  immerso fino alla cintola doveva farne immani fascine, aveva il privilegio di mangiare sei volte al giorno. E appena bastavano a sostentarsi, anche perché erano in prevalenza donne e bambini. Nell’adolescenza ho provato pure l’altra, quella cattiva: corrotta da un paio di amiche scafate e trasgressive, ho tirato qualche boccata da una canna. Ma siccome l’unico effetto è stato una gran voglia di pastasciutta – e all’epoca non avevo certo bisogno di qualcosa che mi aumentasse un già gagliardo appetito – ho lasciato

Il tempo è dalla loro parte. Nel senso di tempo atmosferico: il prossimo weekend non sarà caldissimo, ma almeno soleggiato. E anche se i protagonisti del raduno in programma a Lido di Dante saranno coloro che in vacanza espongono zone dove tradizionalmente il sole non batte, non devono necessariamente lasciarle pure in balia delle intemperie. Sì, arrivano i nudisti, come volgarmente vengono chiamati, o i naturisti, secondo la dizione più corretta, perché non praticano la nudità per provocazione o tantomeno esibizionismo, ma all’interno di una scelta esistenziale di contatto e adesione con la natura, che ci ha creato senza vestiti. La filosofia naturista ha più successo nei paesi nordeuropei dov’è nato, più di cent’anni fa, e negli Stati Uniti, e conserva ancora il retrogusto utopistico e ingenuo della Belle Epoque. In un mondo sempre più tecnologico e artificiale, qualcuno sentì il bisogno di riscoprire i valori dell’autenticità e della semplicità primordiale, in un sogno edenico che era una fuga e insieme una critica alla società. Proprio questa prospettiva di rigenerazione dell’essere umano fece sì che in Germania parte dei valori naturisti venissero piratati e distorti dal nazismo nel senso di esaltazione della superiorità fisica della razza ariana: il film Olympia di Leni Riefensthal

Questi weekend freddi e piovosi stanno sistematicamente rovinando prime comunioni, feste di matrimonio e recite scolastiche. Riusciranno anche a fermare la legione prediletta di Giulio Cesare, una delle più prestigiose dell’antica Roma, la XIII Gemina, che oggi dovrebbe esibirsi in città in tutta la sua possanza, tra sferragliare di gladi e grida di battaglia? Figuriamoci. Il centurione che consulta il meteo sullo smartphone è ancora più anacronistico di quello con l’orologio da polso, reso celebre dal film Ben Hur. Non solo perché le app meteorologiche sono ancora più distanti dall’età romana degli orologi, ma anche perché ci vuol ben altro che due gocce di pioggia e qualche grado in meno per fermare la legione che passò il Rubicone, sconfisse i seguaci di Pompeo a Farsalo, Tapso e Munda e in seguito combatté per l’Impero, dalle steppe della Pannonia ai deserti della Mesopotamia, guadagnandosi gli appellativi di Pia e Fidelis. Oggi le benemerenze della Gemina sono ben altre: il bando di arruolamento sul suo sito internet promette «bottino per assicurarti una pensione per la vecchiaia», il che rende la legione molto interessante per i giovani cui il precariato non dà certezze economiche per il presente e tanto meno sicurezza previdenziale per l’avvenire –

Nostalgia struggente di Gianni De Michelis: un sentimento che non mi assale solo ora, all’indomani della sua morte, ma che mi sono sorpresa a provare sempre più spesso, negli ultimi anni. E non è solo rimpianto per la mia giovinezza, coincisa con il periodo di massima fama e splendore del più mondano dei dirigenti social-craxisti (e uno dei più intelligenti), ma proprio per quel lifestyle così antipauperistico, fatto di party, discoteche, champagne a fiumi e forse non solo quello, che ha avuto in Rimini e Riccione due fra i suoi scenari più caldi. Erano i famosi ruggenti anni Ottanta presi in giro dal Drive in di Antonio Ricci (c’era proprio un De Michelis imitato da Gianfranco D’Angelo con accento veneziano e attorniato da tre procaci girls di nome Murano, Burano e Torcello) e messi alla berlina da Sabina Guzzanti a Tunnel, dove interpretava il personaggio di Grazia De Michelis, la cantante ultra-raccomandata. Anni di corruzione, in cui cresceva a dismisura l’immane debito pubblico che ci opprime oggi, ma anche di vitalità disordinata e, tutto sommato, di ottimismo, malgrado le tragedie che ancora si consumavano nel nostro paese: terrorismo, stragi di mafia, efferata cronaca nera (è l’epoca del mostro di Firenze e dei

Volete svegliarvi ogni mattina felici e soddisfatti e andare a letto ogni sera scoppiando di gratitudine? Non servono corsi di mindfulness né costosi incontri con life coach di grido, basta investire qualche euro in un libro – non di self help, ma di storia. Ho qualche dubbio che conoscere la storia prevenga il ripetersi di tragedie epocali (quante guerre sono state scatenate per vendicare presunti torti secolari?), ma di una cosa sono certa: più ne sappiamo delle condizioni di vita dei nostri omologhi nel passato (non i re, i papi, i condottieri o gli artisti, ma le donne e gli uomini che campavano la famiglia e tiravano la carretta), più ci rendiamo conto della fortuna pazzesca che è vivere nel nostro tempo. Il libro taumaturgico che vi raccomando è Il fango, la fame, la peste: clima, carestie ed epidemie in Romagna nel Medioevo e nell’età moderna di Aurora Bedeschi ed Eraldo Baldini, edito da Il Ponte Vecchio. Già il titolo induce a toccamenti scaramantici, e con ottime ragioni: è un repertorio accurato e documentato delle catastrofi che hanno vissuto i nostri antenati. E non in senso generale: se siamo romagnoli, i trisnonni dei trisnonni dei nostri trisnonni, gente con il nostro stesso

«Cani e padroni di cani, vorrei stringervi le mani molto forte con uno strumento di tortura e di morte», cantava qualche anno fa Elio, dando voce all’insofferenza di chi pesta le deiezioni canine non raccolte dai proprietari del quadrupede, in spregio alla legge, alla buona educazione e all’igiene pubblica. (La legge, fra l’altro, oggi imporrebbe di sciacquare pure le pisciate dei cani, che tanto innocue non sono: odore a parte, alza la gamba oggi, alzala domani, le colonne dei portici di piazza Tre Martiri sono ridotte peggio dei ruderi della Casa del Chirurgo). L’inno di Elio potrebbe essere adottato da un’altra categoria insofferente non tanto ai cani, quanto alla crescente tracotanza di (alcuni) padroni. Mi riferisco ai negozianti, che ormai devono dare libero accesso nelle loro esercizi a quattrozampe di tutte le forme e dimensioni, per lo più senza museruola, e se osano fare rimostranze vengono coperti di improperi. E dico «devono» perché, a quanto pare, negare l’ingresso ai cani significa ridurre di un buon quaranta per cento la clientela. Perfino al Conad è stato eliminato il cartello «qui noi non possiamo entrare», che, sì, dava luogo a scene strazianti anche per i meno cinofili - il cagnolino legato col guinzaglio alla ringhiera

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