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Il buon nome di Rimini non si difende col silenzio


3 Settembre 2017 / Lia Celi

«Stupro di Rimini». Eccola qui, la nostra città, inchiodata da giorni agli occhielli dei titoli sui quotidiani, alle headline dei tiggì, alle voci di Google.

All’episodio del 26 agosto (in cui gli stupri veramente furono due, ai danni della ragazza polacca e della trans peruviana, ma forse quest’ultimo nella vomitevole borsa della notiziabilità vale meno) se n’è aggiunto un altro, sventato all’ultimo momento dai carabinieri.

E’ sgradevole e inopportuno dolersi rabbiosamente anche per la vergogna caduta sulla propria città, quando cuore e pensieri dovrebbero essere occupati solo dalla costernazione e dalla solidarietà per le vittime.

La preoccupazione per il «buon nome» è davvero un riflesso pericoloso, sia a livello individuale che collettivo, quando non si traduce in onestà e rettitudine, ma diventa silenzio o ipocrisia. Quante persone oggetto di violenza sessuale hanno taciuto e tacciono per timore di perdere la propria reputazione, anziché trovare supporto e giustizia? Quante istituzioni, dalle forze armate alla Chiesa, hanno coperto abusi sui più deboli avvenuti al loro interno, per non macchiare la propria «onorabilità»?

Una città, per di più se è aperta e libera come Rimini, non può tacere né silenziare, ed è una fortuna. Perché ci obbliga a riflettere su che cos’è, oggi, il «buon nome» per una città che, in quanto località turistica, vive della sua fama positiva. Non può significare spacciarsi per un paradiso in terra, aperto solo a gente temperante e integerrima, non solo perché in tal caso sai quanti locali dovrebbero chiudere, ma anche perché luoghi così non sono mai esistiti e tantomeno potrebbero esistere nella nostra epoca così mobile e dinamica.

Il «buon nome» non può nemmeno indicare un’irrealizzabile sicurezza al cento per cento, ventiquattr’ore al giorno, situazione che ricorda più una camera iperbarica che un luogo dove esseri umani imperfetti vivono e si incontrano.

Il solo modo di difendere il «buon nome» di una città è reagire in modo pronto e appropriato agli episodi negativi, soccorrendo le vittime in tutti i modi possibili e stringendo il cerchio intorno ai colpevoli, come pare stia avvenendo in queste ore.

La fase due è ragionare su quanto accaduto per capire come prevenirlo, a tutti i livelli, dalla sorveglianza all’intervento sociale (più che mai opportuno, se è vero che tre dei presunti responsabili degli stupri del 26 agosto sono adolescenti stranieri cresciuti in Italia). Non possiamo sperare che nella mente delle vittime Rimini d’ora in avanti non sia un nome da odiare e dimenticare. Però possiamo e dobbiamo aspettarci che la nostra città sappia trarre da questi giorni amari, una lezione per diventare più sicura senza rinunciare ad essere accogliente.

Lia Celi www.liaceli.it