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E se Castel Sismondo fosse stato restaurato cent’anni fa?


8 Gennaio 2017 / Stefano Cicchetti

Chi ha l’età per ricordarsi di quando Castel Sismondo era “le prigioni“ (l’imprison), si rallegra più di ogni altro ad ogni progetto per un suo recupero. I detenuti fino al 1967 furono rinchiusi in quello che era ormai solo un rudere fatiscente. E tale restò per ancora diversi anni prima che si avviassero i lavori condotti dall’architetto Carla Tomasini Pietramellara, sostenuti, nell’ultima fase, dalla Fondazione Carim. Di buono, anzi, di ottimo, al castello c’erano solo i capperi, che prosperavano fra le crepe delle mura.

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Castel Sismondo quando era ancora un carcere, con le “bocche di lupo” a ostruire le finestre delle celle

Con i progetti in via di realizzazione, la Rocca malatestiana farà un bel passo avanti verso una sistemazione dignitosa, che se non altro inverte il corso di un degrado che perdura da secoli.

È vero che i riminesi non hanno mai amato troppo il loro castello, su cui aleggia una fama sinistra fin dai tempi del tremendo Pandolfaccio. Forse è solo leggenda nera, quella che dipinge l’ultimo dei Malatesta intento a precipitare i suoi suoi ospiti in trabocchetti irti di lame e pavimentati con calce viva. È certo però che nel 1498 il signore di Rimini impiccò ai merli di Castel Sismondo i colpevoli di una congiura che per poco non gli era costata la pelle, ripetendosi di lì a breve contro altri veri o presunti cospiratori.

Nei secoli a venire la reputazione del maniero non ebbe certo occasioni per migliorare. A un certo punto qualcuno pensò perfino di raderlo al suolo, inutile com’era diventato per gli usi militari, per costruire invece una moderna fortezza là dove sarebbe servita, cioè sul mare (ma sul sito dell’Anfiteatro, di cui si era persa perfino la memoria!).

Dissegno novo della città di Raffaele Adimari, 1616

Dissegno novo della città di Raffaele Adimari, 1616

Forse solo perché era troppo grosso per essere eliminato, ci si dovette però rassegnare a usare il castello come caserma delle truppe papaline, sempre più mal sopportate, e infine carcere, per giunta di infimo ordine. Non senza però averlo privato, ai primi dell’800, dei bastioni e del fossato, nonché appioppandogli tristi aggiunte e un contorno via via sempre più mesto: capolinea di torpedoni, distributore di benzina, parcheggio di auto.

E allora, in alto i cuori, che il castello va per il meglio.

Ma se, invece, verso l’alto volessimo far volare la fantasia? Provando a usare uno di quei “se” che la storia non tollera?

Insomma, come sarebbe oggi Castel Sismondo se, invece di attendere gli anni ’70 del secolo scorso, fosse stato restaurato prima? Diciamo entro il 1920.

Proprio allora, per esempio, a Rimini furono ricostruiti i Palazzi Comunali. Con criteri che oggi farebbero gridare allo scempio. Una creativa operazione dell’architetto Gaspare Rastelli che doveva molto più alla passione neo-gotica imperante fin dall’Ottocento grazie al Romanticismo e al melodramma, più che al rigore filologico oggi imperante.

E però, vogliamo chiedercelo? Come sarebbero oggi i palazzi del Podestà e dell’Arengo se fossero stati restaurati con i criteri attuali? Ci piacerebbero davvero di più senza i merli ghibellini, le pentafore e i sesti acuti del 1919-23? La cartolina di Rimini ne averebbe guadagnato?

Piazza Cavour con i palazzi del Podestà e dell'Arengo prima dei restauri del 1919-23

Piazza Cavour con i palazzi del Podestà e dell’Arengo prima dei restauri del 1919-23

Lo stesso paradosso si potrebbe applicare a San Marino, il cui aspetto attuale non risale al medio evo, bensì agli anni ’30 del ‘900 e all’opera di Gino Zani. 

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Le rocche di San Marino prima degli interventi degli anni ’30

Anche la splendida rocca di Gradara non è proprio del tutto originale. Molto del suo fascino pittoresco si deve a Giuseppe Sacconi, attivo alla fine dell’800. Celebre per aver progettato il Vittoriano di Roma, era un altro che non andava tanto per il sottile. Pur essendo soprintendente ai monumenti delle Marche e dell’Umbria, non si fece scrupolo di inserire una cappella in rutilante stile gotico-fiorito nell’austera e rinascimentale  basilica di Loreto.  Poi nel 1921 ci pensò Umberto Zanvettori a effettuare nuovi interventi, più interpretativi che filologici, soprattutto negli interni, conferendo loro l’aspetto attuale: “una commistione di stili ed elementi eterogenei – ammette il sito ufficiale della Rocca di Gradara ripresi sia dal periodo medioevale sia da quello rinascimentale con delle incursioni decorative di stile liberty”.

Per non dire della torre del campanone di Santarcangelo, uno dei simboli clementini, che non vide mai Guelfi e Ghibellini, ma fu costruita di sana pianta nel 1893. 

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L’ottocentesca torre del Campanone di Santarcangelo

Del resto, di celebri e ammiratissimi falsi storici è piena l’Italia (e l’Europa, e il mondo). O perlomeno di coacervi dove le antiche vestigia hanno ricevuto ritocchi, completamenti, perfino ricostruzioni, anche molto recenti.

Vedi il Duomo di Milano, iniziato sì nel 1386, ma la cui facciata fu conclusa solo nel 1805, mentre per tutto il Novecento continuarono a spuntare piccole e piccolissime guglie. Sempre a Milano, il Castello Sfozesco ha largamente beneficiato del restauro di Luca Beltrami, conclusosi nel 1905. Beltrami ripara, ripristina, ricostruisce, lasciando che le aggiunte siano abbastanza distinguibili. Molto spesso, però, si fa prendere da slanci di fantasia: restauro sì, ma “stilistico”.

Il castello Sfrozesco di Milano prima, durante e dopo i restauri

Il castello Sfrozesco di Milano prima, durante e dopo i restauri

Il caso più celebre è quello del campanile di Venezia, che il 14 luglio 1902 decise di collassare. 

Piazza San Marco ingombra di macerie del campanile

Piazza San Marco ingombra di macerie del campanile

Come racconta Leopoldo Pietragnoli (Cronaca di una fine annunciata, 1992), non era affatto scontato che uno dei simboli della Serenissima dovesse essere ricostruito e identico a prima. 

Per esempio: “La città è tutta una festa di architetture e forse a questo pensava l’architetto austriaco Otto Wagner quando si poneva l’interrogativo: «Per qual motivo non dovrebbe essere rappresentato nella piazza di Venezia anche lo stile moderno, perché ormai la disgrazia è avvenuta?». E se proprio Venezia aveva bisogno di un campanile, «…mi piacerebbe vederlo in un altro punto, perché là dove era, guastava indubbiamente l’armonia stilistica della piazza».

“Non fu l’unico a sostenere questa tesi – prosegue Pietragnoli – che ebbe vari fautori, tanto è vero che più di qualcuno provò, con disegni e fotomontaggi, ad immaginare il campanile collocato diversamente.Si levarono altre voci a tenere compagnia a quella dell’architetto Wagner: il socialista Elia Musatti (1869-1936), padre dello psicanalista Cesare Musatti (1897-1989), ribadì ancora una volta la sua contrarietà alla riedificazione: «99 su 100 cittadini interpellati vi risponderebbero che preferiscono la piazza così com’è attualmente», cioè senza il campanile; «Pensiamo con dolore che debba sorgere il campanile, che toglierà la piacevole vista dell’angolo»“.

Perfino un altro monumento, però vivente, scagliò il suo “no!” alla ricostruzione: era Giosuè Carducci, sebbene sotto lo pseudonimo di Enotrio Romano.

Fu (forse) il Deputato Pompeo Molmenti (1852-1928) a coniare il motto «Dov’era e com’era» che tanta fortuna ebbe allora e poi in seguito. Di certo «Dov’era e com’era!» riecheggiò per sei volte nel discorso del Sindaco Filippo Grimani al momento di posare la prima pietra del nuovissimo campanile.

Chi aveva ragione? Secondo i criteri odierni, erano nel giusto Wagner, Carducci, Musatti e chi con loro. Ma noi riusciamo a immaginare una Venezia senza il campanile di San Marco? O con una torre novecentesca la suo posto?

D’altra parte, il «dov’era e com’era» non è affatto tramontato, anzi. Per esempio, è l’imperativo che si è appena dato il Governo per ricostruire i paesi marchigiani e umbri distrutti dal terremoto.

Insomma, tutta ‘sta pappardella, non per lanciare un’altra crociata per un «dov’era e com’era» riferito a Castel Sismondo, dopo quella che abbiamo già vissuto con il Teatro Galli. Si fa solo per chiacchierare in una domenica d’inverno.

Di nuovo, ben vengano tutti i lavori che potranno restituire almeno un’idea dell’antico splendore alla residenza di Sigismondo.

Tenendo però a mente che tutti i restauri sono “falsi”, anche i più rigorosamente filologici. Che regole eterne e incontestabili per eseguirli non esistono, ma sono cambiate nel tempo e cambieranno ancora, così come i gusti di chi osserva.

E che, senza dubbio, a Sigismondo quel «dov’era e com’era» non sarebbe affatto dispiaciuto.

 Guglielmo Meluzzi: ricostruzione ideale di Castel Sismondo. 1880


Guglielmo Meluzzi: ricostruzione ideale di Castel Sismondo. 1880

Stefano Cicchetti