Ci sono cose che denunciano la tua vera età più crudamente delle rughe e dei capelli bianchi, che oggigiorno si possono sempre correggere. Più difficile nascondere completamente la traccia della vaccinazione antivaiolosa, una piccola scalfittura o discromia sul braccio che inchioda la tua data di nascita in qualche punto fra il 1888 e il 1981. Oppure non lasciarsi scappare espressioni che rimandano a Carosello o alla tivù dei ragazzi degli anni Sessanta-Settanta.
A Rimini possiamo misurarci l’età ricordando i negozi fantasma, il cui spettro aleggia ancora nella nostra memoria quando passiamo davanti ai loro successori contemporanei. Quando mi sono trasferita qui, all’inizio degli anni Ottanta, il Coin si chiamava già così, ma i riminesi continuavano a indicarlo come Omnia, un nome che era rimasto aggrappato alla memoria, anche solo come punto di riferimento per gli appuntamenti del sabato pomeriggio.
È difficile sbarazzarsi di questi spettri, soprattutto se ricordano scorribande adolescenziali in centro, i primi shopping senza la supervisione della mamma oppure il sapore del primo montebianco – per me, che venivo da fuori, una novità, scoperta alla Bottega del Caffè di via Serpieri, che in quarant’anni ha cambiato gestione non so quante volte fino a diventare un risto-bar salutista low-carb.
Il vicino emporio fino a pochi anni fa era la cartolibreria più famosa di Rimini, l’agenzia viaggi di fronte è stata una sofisticata boutique, mentre all’angolo con via Guerrazzi c’era un negozio di oggettistica chiamato Carta Carta, poi ristretto a una sola vetrina, quella dove ora c’è la libreria antiquaria Luisè, a sua volta traslocata dalla corte in corso d’Augusto…
Se chiudo gli occhi posso costruire un filmato in time-lapse del centro di Rimini fatto di saracinesche si abbassano e si rialzano, di insegne che scompaiono o cambiano, di vetrine che si svuotano, restano deserte e poi si riempiono di nuovo. Oppure – ed è il caso più triste – muoiono e diventano garage con il loro bravo cartello «passo carrabile».
In questo flusso continuo restano, come confortanti atolli in cui riposare gli occhi della memoria e ritrovare il filo che ci lega alla nostra gioventù, restano le «botteghe storiche», negozi quieti, spesso poco appariscenti, ma tenaci e vitali come vorremmo essere anche noi. Frequentarli non ci fa «sentire ancora giovani», ma ci insegna a invecchiare con grazia, adattandoci ai tempi senza smentirci o tradirci.
Come la pizzeria sotto palazzo Fabbri o il tabaccaio vicino a piazza Tre Martiri, o come l’ultima arrivata fra i negozi storici, l’Intimo Giulia in via Garibaldi, così tranquillizzante rispetto agli omologhi più moderni e fighettoni, con quelle vetrine affollate di manichini dalle misure impossibili che sfoggiano mutande problematiche per chiunque abbia più di vent’anni. Non tutti nell’intimità vogliamo sembrare panterone da materasso, lolite maliziose o manzi da Instagram, o magari non sempre: ogni tanto ci piace riscoprire la comodità dello slippone a vita alta senza scritte sul sedere e apprezziamo le canottiere che sul lavaggio non hanno più pretese di Poppea e possono essere messe in lavatrice senza tanti complimenti.
Questa e le altre «botteghe storiche» sono vere e proprie oasi per noi persone mature, un filino stomacate dal commercio strillato, aggressivo, esibizionista, che ogni tanto vogliamo fare un tuffo nel lontanissimo passato in cui si entrava in un negozio quando si aveva bisogno di comprare qualcosa, non per tanto per fare qualcosa. E poiché siamo vigilia del Primo maggio, ne approfitto per fare gli auguri a tutti coloro che lavorano nei negozi con una storia, in cui c’è anche un po’ della storia di ognuno di noi.
Lia Celi
(nell’immagine in apertura, il negozio Santarelli di Piazza Tre Martiri verso il 1970 – Archvio fotografico Biblioteca Gambalunga)