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Le straordinarie poesie in un dialetto pieno di K del sacerdote “incallito” nella fede


14 Giugno 2020 / Paolo Zaghini

Carlo Rusconi: “S no un viàz – Poesie in dialetto di Rimini” – Panozzo.

Questo sacerdote, ordinato nel 1966, quasi ottantenne (è nato a Rimini nel 1942), docente di greco, di ebraico, di latino presso diversi, e prestigiosi, istituti religiosi italiani, ci regala oggi uno straordinario libro di poesie dialettali.

Don Carlo Rusconi nel presentarcelo scrive: “Se non fosse un termine troppo impegnativo, di questa mia nuova prova parlerei come d’una nuova sfida. Strana, forse. Comunque d’una sfida (…) il dialetto e l’esperienza interiore mi riconducono entrambe ad altri più giovanili anni della mia ormai non più breve esistenza, anni che difficilmente potranno risultare non trasfigurati dalla meditazione presente d’un vecchio, incallito nella propria fede”.

Testi poetici scritti in un dialetto sostanzialmente riminese, ma non puro perché influenzato dalle varie “parlate” con cui don Rusconi nel corso della sua vita è venuto a contatto. Nella Introduzione al volume l’Autore, da buon linguista, cerca di condurci in un mondo sconosciuto ai più, visto il pessimo uso che tutti noi facciamo ogni giorno della nostra lingua, parlata ma ancor peggio scritta: la glottologia, che è la disciplina che si occupa dello studio storico delle lingue e delle loro famiglie e gruppi di appartenenza, delle origini etimologiche delle parole, considerando i loro rapporti e sviluppi storici.

Don Rusconi ci dice che il nostro dialetto è una lingua latina, anche se “occorre ricordare che il latino nella nostra regione si impiantò su di una base prevalentemente celtica: la nostra era un’area di insediamento senone”. Dunque nel nostro dialetto presenza di parole di origine latina, ma anche celtica, oltre che greche e semitiche. Ma anche veneziane per gli intensi scambi e contatti con Venezia. Dunque don Rusconi rivendica la piena libertà di utilizzo di parole per il suo dialetto “quasi” riminese.

E questa è la prima considerazione. La seconda è invece sulla grafia del suo dialetto. Questo è un problema più che mai aperto in quanto non esiste una versione normalizzata della scrittura dialettale romagnola. Ogni autore, nel corso dei decenni, ha adottato una propria versione di grafia. La mia bibbia per questo è il “Dizionario romagnolo (ragionato)” di Gianni Quondamatteo.

Non credo lo sia invece per don Rusconi. Le sue poesie sono piene di k, che invadono gli occhi del lettore, non usate dalla maggioranza degli autori dialettali romagnoli. Queste k sono per lui la lettera “c” in versione gutturale, come ad es. kollare, korda, kiave, kiodo. Sono sicuro che prima o poi l’amico Davide Pioggia, studioso della nostra scrittura romagnola, ci fornirà un proprio commento in merito. Ma già solo questo titolo di una delle poesie ci può suscitare qualche perplessità: “Kum è k a fàz ès un kristchén” (“Come faccio ad essere un cristiano”).

I testi sono molto belli. Mi permetterei di definirli crepuscolari, in quanto ci raccontano di considerazioni che vengono fatte ormai al termine di una lunga e proficua vita. Segnati da spirito religioso, ma non troppo o perlomeno con una costante autoironia presente: dalla poesia sopra richiamata “Kum è k fàz alóra a ès kristchén / sa tè ke t a m dè dàn ke l’ è na vita, / k a n ti supórt nénka in fotografia?” (“Come faccio allora ad essere cristiano / con te che mi dai fastidio da una vita / che non ti sopporto nemmeno in fotografia?”).

Ma anche da “L’invérne” (“L’inverno”): “Mo kwànd u m tukarà, / ènka mu mé, d murí / invézi ad prutestè, ai girò “Grazie” / ma kwèl ke l à dicís / ke i arivès inkéva / i dé dla mí fadíga ma sté mònd” (“Ma quando mi toccherà, / anche a me, di morire, / invece di protestare, gli dirò “Grazie” / a quello che ha deciso / che arrivassero alla fine / i giorni della mia fatica in questo mondo”).

E il senso del tempo che trascorre è presente in molti testi: da “La strèda dù k a vàg” (“La strada dove vado”) “A spàs an ni vàg mài, / ke andé a spàs e vò dí s no pérd de témp. / E e témp l’è una d kàl ròbi / ke na vólta t l è pérs t a n e tróv piò” (A spasso non ci vado mai, / perché andare a spasso vuol dire perdere del tempo. / E il tempo è una di quelle cose / che una volta che l’hai perso non lo trovi più”).

Ed infine la certezza che è stata vissuta una bella vita: da “I àn” (“Gli anni”) “Onún l à i sú, kwèst l è sikúr, e i mi / a n i vuría kambié, s ènka us putés, / sa kwéi d un ènt, perké, kume la kèsa, / ke tòta t a la zír sénza surprési, / isé i mí àn a i knöss: i n dís busî, / i n mésa nínt, sí ke mé a viàz trankwél. // I mí stentasí àn i m knös mu mé / e mé àn i knös bén ma lór e a andém insén / finént a l últmi dé, kwànd e Sinór / e dirà: “Basta! Adès vní tót ma kèsa”. (“Ognuno ha i suoi, questo è sicuro, e i miei / non vorrei cambiarli, se anche si potesse, / con quelli di un altro, perché, come la casa, / che tutta la giri senza sorprese, / così i miei anni li conosco: non dicono bugie, / non nascondono niente, sicchè io viaggio tranquillo. // I miei settantasei anni conoscono me / e io conosco bene loro e andiamo insieme / fino all’ultimo giorno, quando il Signore / dirà: “Basta! Adesso venite tutti a casa”).

Mi sono sentito a casa con il testo “Al skérpi d Zaghinôun” (“Le scarpe di Zaghinôun”). La descrizione di Zaghinôun mi ha fatto ricordare mio nonno, un uomo grande e grosso, anche lui spesso così chiamato. Ma la conclusione del racconto è un passaggio di grande poesia: Zaghinôun cercava le scarpe ma non le trovava. Ne trovò una vicina alla porta di casa, ma “kl èlta la n si truvèva, / finké ló, Zaghinóun, / l andét t la stàla per dé e fin m al vàki, / e e truvét la sú skèrpa, / ke la sú gàta la l éva druvèda / per féi e níd per i sú trí gatín”. (“Quell’altra non si trovava, / finchè lui, Zaghinón, / andò nella stalla per dare il fieno alle vacche, / e trovò la sua scarpa, / che la gatta l’aveva adoperata / per farci il nido per i suoi tre gattini”).

Paolo Zaghini