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Quando l’Emilia era rossa fu fatta l’Emilia di oggi


23 Aprile 2018 / Paolo Zaghini

“Emilia rossa. Immagini, voci, memorie dalla storia del Pci in Emilia-Romagna (1946-1991)” a cura di Lorenzo Capitani. Vittoria Maselli Editore.

Debbo alla cortesia dell’amico bolognese Mauro Roda la conoscenza ritardata di questo volume, uscito a fine 2012 per i tipi di questa piccola casa editrice di Correggio (RE). Sono passati dalla sua uscita oltre 5 anni e dire che il mondo politico italiano è cambiato è dire poco, soprattutto dopo il 5 marzo di quest’anno.

Ma questo libro, curato da Lorenzo Capitani, docente nelle scuole superiori di Reggio Emilia, rimane comunque importante perché era il tentativo di gettare le basi di un percorso di ricerca sulla storia del Pci emiliano-romagnolo, ancor oggi troppo poco studiato. E in questo lasso di tempo purtroppo non molto si è fatto. In più il volume, attingendo al primo lavoro di ricerca del materiale fotografico messo in atto dall’Istituto Gramsci bolognese e dalla rete dei 9 Istituti provinciali della Resistenza, pubblica una prima raccolta di fotografie tratte da quei fondi in via di costituzione. In questo campo invece, da allora, molto lavoro è stato fatto ed oggi gli archivi fotografici sul Pci presso gli Istituti storici della Resistenza sono un pezzo fondamentale per lo studio del movimento operaio e delle sue organizzazioni politiche nei territori della nostra Regione. Anche per Rimini, e le immagini che pubblico ormai da qualche tempo a corredo delle mie notarelle storiche su Chiamamicitta.it lo stanno del resto a testimoniare.

Uno sguardo alla grande storia di un partito che ha contribuito in modo decisivo, dopo la tragedia della guerra e l’ardua prova della Resistenza, a delineare i tratti caratterizzanti di una Regione. Emilia rossa. Per molti anni un simbolo ideale e un modello di governo.

I due contributi più importanti ospitati nel volume sono le interviste di Capitani a Carlo Galli, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna nonché presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, e a Luciano Casali, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna.

Galli sostiene che “l’Emilia, quella che è oggi, nel bene e nel male, l’ha fatta il Pci. Piaccia o non piaccia”. Cinque i momenti salienti che segnano l’intera vicenda dei comunisti dell’Emilia-Romagna: “la prima, eroica: i partigiani che entrano nelle città liberate, il partito come una parte che si fa apertamente carico di un tutto”; “la seconda, tragica: la parte-tutto in realtà è anche debole e soccombe durante il lungo conflitto sociale degli anni Cinquanta. Allora i morti, gli operai di Modena del ’50, la parte che soccombe e perde, gli operai uccisi, gli operai licenziati; “la terza, altrettanto tragica, ma con un esito opposto: i morti di Reggio Emilia del luglio ’60, la parte che soccombe, però, vince e blocca lo scellerato, stoltissimo tentativo di spostamento a destra dell’asse politico nazionale, facendo emergere una sorprendente nuova generazione antifascista”; “la quarta, carica di speranza: l’incontro tra Guido Fanti e il Cardinale Lercaro a Bologna, un progetto di incontro storico tra le due anime-comunità dell’Emilia, tradizionalmente concorrenti e ora riunite sotto il segno di due grandi personalità”; “infine la colorita e inquieta piazza del ’77, con i suoi slanci e le sue tragedie: la contraddizione senza sintesi che incrina il dogma del ‘controllo’ dei conflitti, aprendo di fatto una stagione di crisi del modello che non volle e non potè mai essere modello”.

La premessa di questo percorso rimane comunque sempre che, agli inizi dell’Unità d’Italia, l’Emilia “era un’area territoriale con poca industria, con ceti borghesi-mercantili non particolarmente innovatori nelle città, con il latifondo. Si può dire che presentava, almeno parzialmente, caratteristiche simili a quella dell’Italia meridionale, con un fenomeno sociale terribile rappresentato dal bracciantato”. “Con l’aggravante che il nostro padronato era anche il più reazionario d’Italia tanto è vero che ci siamo pure ‘inventati’ il fascismo. Non quello futurista, arditista, ma quello reazionario delle camicie nere e delle bastonature”.

Il peso politico del Pci non nasceva soltanto dal seguito degli operai, ma proveniva in primo luogo dalle campagne. E quando parliamo di certi “arroccamenti” del PCI negli anni ’50, non bisognerebbe mai sottovalutare le azioni di uno Stato democratico spesso solo a parole (è la stagione degli attacchi ai poteri locali e dei commissari straordinari imposti dai prefetti nei comuni), oltre che dalla presenza di una feroce offensiva antisindacale e antidemocratica nei luoghi di lavoro.

“La specificità emiliana?” si chiede Galli. “La mitologia del consenso”. “Proprio perché diventano tutti amministratori i comunisti imparano, devono imparare, che bisogna essere capaci di parlare a tutti. La linea politica del partito? Utilizzare le amministrazioni per fare inclusione”. Infine “la politica deve fare cultura, perché la cultura è un bene sociale che contribuisce alla crescita complessiva di una comunità più consapevole e solidale”.

La sottolineatura di Casali invece riguarda la Resistenza. Dopo i fatti del luglio 1960 si apre una nuova stagione di studi che punta a ridisegnare la storia d’Italia. Un primo risultato riguarda proprio la Resistenza, precedentemente vista esclusivamente dal punto di vista della lotta armata, poi, “dopo il ’60, la Resistenza diventa oggetto di una analisi politica e sociale ben più raffinata. Ora si mette quasi in disparte l’aspetto militare e si sottolinea invece l’aspetto civile, assume una nuova centralità il legame tra la Resistenza e la Costituzione. La Resistenza come elemento distintivo ed identitario della Repubblica”. “Le radici venivano rintracciate nella Resistenza, che però attraverso la vicenda dei Cervi, si connetteva alla cultura e alla tradizione italiana, in cui venivano a congiungersi i valori di un mondo contadino votato al progresso, quelli di tradizioni risorgimentali richiamati esplicitamente dai simboli stessi della Resistenza, nel quadro di una forte valorizzazione di quell’umanesimo gramsciano da cui il comunismo italiano direttamente si sentiva e voleva discendere”.

Nelle testimonianze e nelle immagini del libro c’è tantissima Emilia, e poca Romagna. Fra i dieci testi di testimonianza solo Bologna, Modena e Reggio Emilia. Sei foto edite, delle molte centinaia pubblicate, sono tratte dall’Archivio fotografico dell’Istituto storico della Resistenza di Rimini.

Vorrei infine ricordare alcuni testi importanti per la conoscenza del PCI emiliano-romagnolo: “I comunisti in Emilia-Romagna. Documenti e materiali” a cura di Pier Paolo D’Attore (Istituto Gramsci Emilia -Romagna e PCI Comitato regionale dell’Emilia Romagna, 1981); Fausto Anderlini: “Terra rossa. Comunismo ideale socialdemocrazia reale: il Pci in Emilia Romagna” (Istituto Gramsci Emilia-Romagna, 1990); Guido Fanti e Gian Carlo Ferri: “Cronache dall’Emilia rossa. L’impossibile riformismo del PCI” (Pendragon, 2001); “Il PCI in Emilia-Romagna. Propaganda, sociabilità, identità dalla ricostruzione al miracolo economico” a cura di Alberto De Bernardi, Alberto Preti, Fiorenza Tarozzi (CLUEB, 2004).

Paolo Zaghini