HomeCulturaMa chi era Panzini e che ci faceva alla Casa Rossa di Bellaria?


Ma chi era Panzini e che ci faceva alla Casa Rossa di Bellaria?


25 Luglio 2021 / Paolo Zaghini

Marco Antonio Bazzocchi, Riccardo Gasperina Geroni: “Alfredo! Alfredo! Storie di Panzini e della Casa Rossa” –  Pendragon.

I più, non ferrati in storia della letteratura italiana, oggi si domanderanno chi fosse Alfredo Panzini (1863-1939). Ebbene fu uno scrittore e giornalista molto famoso, a cavallo fra Ottocento e Novecento, a cominciare dal successo che ebbe il suo reportage in bicicletta da Milano a Bellaria, con il titolo “La lanterna di Diogene” (Treves, 1907).

Ma nel Riminese il suo nome è legato alla presenza della “Casa Rossa” alla Cagnona, frazione di Bellaria (ma in quegli anni ancora piccolo centro agricolo del Comune di Rimini), sua residenza estiva, luogo di appuntamenti culturali e oggi sede museale e deposito dell’archivio privato dello scrittore. Edificata nel 1909, divenne luogo di incontro con gli amici, i letterati (da qui passarono, tra tanti altri, Papini, Moretti, Serra, Aleramo, Sarfatti), i pittori (Dudovich, De Pisis) e per lui anche punto di osservazione privilegiato di quel mondo rurale che confluì nella sua narrativa come tema primario. Restò a lungo in disuso finché un ottimo restauro e uno straordinario allestimento dal 2007 l’hanno riaperta al pubblico.

Nato a Senigallia da padre romagnolo, medico condotto, Panzini trascorse la sua giovinezza a Rimini. Frequentò poi il Convitto Nazionale Foscarini a Venezia fra il 1875 e il 1882 e si laureò in lettere a Bologna con Giosuè Carducci. Esordì con i suoi primi testi a partire dal 1893 (“Il libro dei morti”).

La buona borghesia italiana per molti decenni seguì con passione l’uscita dei suoi racconti, dei suoi romanzi, dei suoi articoli sui giornali.

Gli autori con questo volume ci forniscono una bella biografia di Panzini, ricostruita spulciando le pagine dei suoi libri che contengono molte informazioni autobiografiche, sia grazie allo scandaglio che hanno fatto dell’archivio privato dello scrittore, in gran parte con carte ancora inedite, non ancora schedato ed inventariato presso la “Casa Rossa”.

Di Lui scrivono: “Ama la campagna e la vita campestre, al pari della vita elegante delle elite culturali a cui accede sin da giovane. Già all’età di ventisei anni fa parte dei circoli più ristretti della Rimini ‘bene’ dove lui sano, forte e dagli occhi color oltremarino è avvicinato da molte giovani donne”.

Insegnò nei Licei di Milano per trent’anni (sino al 1917) per trasferirsi poi a Roma dove rimase sino alla morte. I suoi libri migliori restano probabilmente il romanzo “Il padrone sono me!” (Mondadori, 1922), da cui Franco Brusati ricavò il suo primo film nel 1955, e il “Dizionario moderno” (la cui prima uscita avvenne nel 1905, per i tipi della Hoepli, ma fu aggiornato sino all’ultima edizione del 1935), opera ancora oggi fondamentale nella storia della lingua italiana.

Bazzocchi e Gasperina Geroni suddividono la storia biografica di Panzini in quattro capitoli: “Panzini malato d’amore”, “Verso il successo” negli anni della Grande Guerra, “Donne e trionfi” in cui si racconta dei suoi rapporti con Ada Negri, Grazia Deledda, Sibilla Aleramo e Margherita Sarfatti, “Lenin a un passo dall’Italia e il vento del fascismo”. Mi soffermerei su questo ultimo capitolo.

“La convinta adesione di Panzini al fascismo va contestualizzata” e cerchiamo di capire “le motivazioni che hanno condotto un intellettuale conservatore, piuttosto morigerato e composto, estraneo ai clamori rabbiosi dello squadrismo e alla violenza in genere, a seguirne la via”. Nel 1925 firma “Il Manifesto degli Intellettuali Fascisti” promosso dal filosofo e senatore Giovanni Gentile. Nel 1929 diventa Accademico d’Italia.

“Grazie al ruolo svolto dal filosofo Giovanni Gentile, Mussolini riesce a trasformare un nutrito gruppo di intellettuali in ‘dipendenti’ dello Stato, a cui in cambio di vicinanza e adesione ideologica al regime avrebbe garantito vantaggi e opportunità (Panzini è di certo uno degli artisti che ha ottenuto dal fascismo ricompense, occasioni e commesse pubbliche)”. Ma per Panzini “l’adesione al fascismo è scevra di tutta quella sovrastruttura ideologica; sebbene questo non sia un alibi, è una genuina volontà di ordine, rigore, tradizione che affonda le origini nella Romagna rurale: è una visione paternalistica e interclassista della società, a difesa certo della proprietà privata, messa in discussione dalle teorie comuniste”.

Panzini a Rimini fu il relatore in due importanti appuntamenti: nel primo, il 21 settembre 1924, è l’oratore ufficiale della commemorazione di Giovanni Pascoli alla Sala dell’Arengo davanti a Mussolini e “zeppa di squadristi armati che sono arrivati da Ferrara, dall’Emilia, dalle Marche”. Nel secondo, il 4 settembre 1933, a Lui è affidata la commemorazione di Carducci al Teatro Vittorio Emanuele II.

Dopo la sua morte, un pesante silenzio è calato sulla figura di Panzini, anche per ragioni ideologiche. I suoi libri sono stati solo saltuariamente ristampati (alcuni negli ultimi anni grazie all’azione dell’Accademia Panziniana di Bellaria Igea Marina).

Panzini amò profondamente la Romagna. Tanto che Antonio Baldini, nel discorso di commemorazione dell’amico scomparso, citò le sue seguenti parole: “Restate fedele alla Romagna: perché … quel poco di buono che c’è ancora nel mondo è in Romagna”.

Morì a Roma il 10 aprile 1939, all’età di 75 anni. Per suo desiderio Panzini venne sepolto nel piccolo cimitero di Canonica a Santarcangelo di Romagna, al confine con Savignano sul Rubicone, a monte della Via Emilia, di fronte ad alcuni poderi che possedeva. Nel 1941 Mussolini rese omaggio alla “tomba dell’amico”.

Paolo Zaghini