Nella repubblica di Perticara fra omicidi e ribellione
23 Settembre 2024 / Paolo Zaghini
Lorenzo Valenti – Franco Vicini: “Martignone “ferocissimo uomo!” Una storia violenta nel contesto dell’epopea della miniera di Perticara”
Il Ponte
Una storia durata oltre due secoli quello dello sfruttamento minerario dello zolfo della miniera di Perticara, in alta Valmarecchia. E nonostante siano ormai sessanta anni che sia stata chiusa, nel 1964, gli studi su questa importante realtà economica ed il contesto storico e sociale che la circondava proseguono. La bibliografia inerente incomincia ad essere veramente notevole. In questo aiutata dalla importante azione pluridecennale del “Parco Museo della miniera di zolfo di Marche e Romagna”, presieduto ormai da un ventennio da Carlo Evangelisti, e dalla attività di ricerca storica della Società di Studi Storici per il Montefeltro, a lungo presieduta da Roberto Monacchi ed ora, da un paio d’anni, da Lorenzo Valenti.
E’ proprio quest’ultimo, Lorenzo Valenti (classe 1960), avvocato con passione per i temi politico-sociali di storia contemporanea dell’Appennino romagnolo e marchigiano, ex-Sindaco di Pennabilli, nonché rappresentante delle parti civili della Provincia di Forlì, di Rimini e di Pesaro nei processi per le stragi naziste del 1944, che “frugando” fra le carte dei tribunali marchigiani (in primis quello di Urbino) ci racconta in questo volume la storia di Martino Manzi, detto “Martignone”. Lo fa assieme a Franco Vicini (classe 1947), ricercatore storico, ex Sindaco di Sant’Agata Feltria, specializzato sulle vicende risorgimentali, soprattutto dei territori a cavallo fra Romagna e Marche. Fra i suoi interessi primari figura l’ambiente minerario del bacino di Perticara, con le sue violenze, i suoi sacrifici, ma anche con la spinta di una forza propulsiva inarrestabile.
Manzi è una figura centrale delle tante storie che riguardano l’alta Valmarecchi nella seconda metà dell’Ottocento. Capo sorvegliante nella miniera di Perticara, nel 1859 si arruola insieme ad altri repubblicani perticaresi come volontario nella Seconda Guerra d’Indipendenza, al ritorno della quale diventa un esponente influente nell’ambito del partito democratico repubblicano della sua zona.
Fu il maggior responsabile dell’uccisione di tre carabinieri a San Donato di Sant’Agata Feltria il 15 settembre 1872, senza però mai essere processato. La sua latitanza, favorita pare dai sodali minatori mazziniani delle miniere vicine, terminò però nel sangue qualche mese più tardi in un’imboscata a Serra di Tornano.
La ricostruzione della sua biografia consente agli autori “il destro di scandagliare alcuni aspetti di quel complesso, difficile, non di rado violento, mondo delle miniere di zolfo”. Un mondo popolato, dopo l’Unità d’Italia, sino a tremila minatori, dove gli incidenti mortali sul lavoro, nelle gallerie, erano all’ordine del giorno “per l’assenza di misure di sicurezza e di tutela per il lavoratore e per la pericolosità intrinseca dell’attività estrattiva svolta”.
“La miniera è stata sempre fonte di ricchezza e come tale è stata continuamente difesa soprattutto durante lo stato liberale, sia dall’esterno che all’interno, cioè nel delicato momento della sua gestione”. Il problema sono i repubblicani, la loro azione fra i minatori assume la caratteristica di una setta. E’ “la cosiddetta repubblica di Perticara”. Negli atti di accusa si legge: “Si trovava organizzata in Perticara una tenebrosa Associazione (…) gente tutta di perduta fama e di qualunque delitto capace”. Alcuni grandi processi per omicidio punteggiano in quegli anni la storia della comunità Perticarese. Si contano negli ultimi decenni dell’Ottocento circa 50 omicidi, ma “l’impunità per gli autori dei delitti è quasi assicurata perché la reticenza è diffusa”. Gli investigatori raramente presentano prove certe della colpevolezza degli imputati e i processi si concludono generalmente con l’assoluzione per insufficienza di prove.
L’uccisione dei tre carabinieri è il più grave dei fatti di sangue avvenuti nel’Alto Montefeltro nel quindicennio dopo l’Unità. Valenti descrive il Manzi così: “Ossequioso e servile con i padroni e le autorità, si mostrava autoritario e sprezzante coi subalterni ed i compaesani. Il rispetto e il timore che ispirava erano quelli che l’ambiente conferiva ai più forti”.
In occasione di una festa nella frazione di San Donato, tre carabinieri della stazione di Sant’Agata fermarono per il possesso di un coltello il fratello del Manzi e lo vogliono condurre in caserma. Lungo la via furono assaliti e i tre militi vennero trucidati, con numerosissime ferite. Intervennero reparti dell’Esercito nella caccia ai componenti il gruppo omicida. Vennero arrestate molte persone (fra cui molte decine di minatori), ma non il Manzi. “Si reclamano rinforzi perché si ritiene affatto insufficiente il numero dei Carabinieri di quella stazione a fronte ad un migliaio di operai avversi al governo e legati in stretta amicizia per principi politici con gli stessi catturandi”.
La vicenda si conclude con la morte di “Martignone”, ucciso a tradimento dai suoi stessi compagni di partito nella notte del 18 novembre. Questi “non sopportavano più le sue minacciose richieste di denaro per emigrare negli Stati Uniti”.
Il libro però prosegue con la storia del maxi-processo del 1888. Con la svolta crispina, si accentuò la repressione sociale. Perticara fu subito nel mirino delle nuove autorità. Si allestì pertanto un processo sommario ad un’intera comunità. Cinque gli imputati, tutti per imputazioni gravissime di più omicidi. Alla sbarra furono chiamati 159 testimoni. Furono giudicati gli omicidi avvenuti fra il 1869 e il 1881, ma senza alcun legame fra loro. Le testimonianze sono a forti tinte: “La politica sanguinaria e violenta delle cosiddette sette democratiche, i rapporti truculenti dei minatori con le donne, le passioni violente, l’abuso del vino, le armi e il sangue, gli omicidi e le vendette, tutto contribuì a disegnare un quadro ambientale peggiore di ogni altro”. L’esito processuale fu di quattro condanne a morte ed una ai lavori forzati a vita. Il processo mise “le catene” alla comunità dei minatori.
Nel libro Valenti riporta anche l’esito del processo a “Martignone” effettuato l’11 settembre 2022 al Teatro Mariani di Sant’Agara Feltria. Per l’accusa il Sostituto Procuratore della Repubblica di Rimini dott. Davide Ercolani. Per la difesa l’avv. Piero Venturi del Foro di Rimini. Per l’accusa Manzi è “colpevole del reato a lui ascritto al capo di imputazione a) e lo condanna alla pena di morte, ordina tuttavia che la pena così irrogata sia convertita in lavori forzati a vita da eseguirsi nelle Colonie Agricole del Regno”. “Sul capo d’imputazione si siano raggiunte prove chiare precise e concordanti idonee a fondare la penale responsabilità dell’imputato, il quale prese parte con molti altri alla ribellione che portò all’uccisione dei tre Carabinieri, il cui comportamento peraltro contribuì ad innescare la rivolta”. La Giuria popolare sentenzia che l’imputato, pur colpevole, abbia “agito per motivi di particolare valore morale, sociale e storico applica l’amnistia e per l’effetto ordina la immediata liberazione del reo”.
Paolo Zaghini