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“Noi bambini che scoprimmo il mare alla Colonia Bolognese”


18 Luglio 2021 / Paolo Zaghini

“Storie di Colonia. Racconti d’estate dalla Bolognese. 1932-1977” A cura di Ilaria Ruggeri, Paola Russo, Luca Villa – Palloncino Rosso / Maggioli.

Questa primavera frequentando il Talassoterapico a Miramare per un ciclo di cure ho visto una serie di pannelli lì collocati dedicati ad una Mostra realizzata nel 2020 sulla storia della Colonia Novarese, posizionata proprio davanti al Talassoterapico. Mostra realizzata dall’Associazione “Il Palloncino Rosso”, presieduta da Luca Zamagni, che dal 2015 si occupa di innovazione sociale, rigenerazione urbana e riuso temporaneo di spazi dimessi. Ho chiesto al banco se esisteva un depliant, un catalogo di questa Mostra, ma mi è stato risposto che loro nulla sapevano in proposito, e che i pannelli erano stati lì collocati alla fine della manifestazione dell’anno precedente.

Come ho scritto un po’ di mesi fa, nonostante la mia ragnatela di relazioni, è possibile che alcune pubblicazioni o eventi mi sfuggano, tipo l’allestimento della Mostra o, cosa ancor più grave, l’aver perso l’uscita del volume della precedente iniziativa de “Il Palloncino Rosso” del 2019 dedicato alla Colonia Bolognese. Con un po’ di fatica e di richieste a vari amici (come per tutti i libri che non si comprano in libreria) ho rimediato questo volume. Un volume importante perché mentre esistono ormai numerosi libri dedicati all’architettura delle quasi 250 colonie marine presenti in Romagna, molto pochi sono i testi che narrano della vita all’interno di queste strutture. I curatori della Mostra e del libro lo hanno potuto fare ricercando le testimonianze dei bambini di allora, degli educatori e di altri testimoni delle attività che si svolgevano fra quelle mura.

Questa Mostra si realizzava fra l’altro in contemporanea all’uscita dell’importante volume “Colonie per l’infanzia nel ventennio fascista. Un progetto di pedagogia del regime” a cura di Roberta Mira e Simona Salustri (per i tipi di Longo, 2019) in cui veniva affrontato il tema delle colonie per l’infanzia durante il periodo fascista da diverse angolature. A partire dal progetto di fascistizzazione della gioventù, venivano presi in esame diversi organismi coinvolti nella progettazione e nel funzionamento delle colonie, i rapporti fra le strutture centrali e quelle periferiche del Partito nazionale fascista e dell’amministrazione statale e locale, gli aspetti architettonici degli edifici adibiti a colonia e il lavoro del personale – medici, direttrici, vigilatrici – impegnato a rafforzare la “razza italiana” e a trasmettere ai giovani ospiti l’ideologia fascista.

Ma “Storie di colonia” travalica gli anni del fascismo ed arriva a raccontare gli anni del dopoguerra, sino al 1977 quando la colonia cessò l’attività. Raccontiamola allora questa storia.

Furono le donne del fascio Femminile di Bologna che già nell’agosto 1921 presero l’iniziativa di aprire “una colonia marittima per i figli degli operai italiani”. Vennero inviati al mare, in una casa di Riccione, un gruppo di 35 bambini, via via cresciuti di numero negli anni successivi. Nel 1930 il Segretario fascista bolognese, Mario Ghinelli, decise di dare una sede stabile a questa iniziativa. Il 15 ottobre 1931 iniziò la costruzione della nuova Colonia marina del Fascismo bolognese, della Decima Legio. Il 1° agosto 1932 la nuova struttura ospitò il primo gruppo di mille bambini.

“Complessivamente in questo edificio vi erano 14 camerate, 2 saloni, 4 refettori e altre 20 sale per servizi vari; la capienza massima era di 1.200 bambini”, di una età variabile fra i 6 e i 12 anni. Costruito su un’area di ca. 20.000 mq, una struttura con tre padiglioni a tre piani. Il 15 agosto 1932 la colonia venne ufficialmente inaugurata con una adunata fascista alla presenza dell’on. Leandro Arpinati (allora sottosegretario agli Interni e presidente del CONI) e di 61 podestà della Provincia bolognese. Il 18 agosto arrivò Benito Mussolini e il 20 l’on. Achille Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista.

“La Colonia Bolognese, come del resto tutte le colonie costruite dal fascismo, imponeva ai suoi giovani ospiti una vita molto dura, si può dire di stampo militare”. La colonia accolse sino al 1940 dai 700 ai 1.000 bambini in ciascuno dei tre turni mensili previsti.

Nella primavera del 1941 l’Esercito l’adibì ad Ospedale militare: qui vennero ricoverati soprattutto i reduci dalla Russia. Dopo l’8 settembre 1943 i tedeschi la usarono più che altro come deposito materiali. Dopo la Liberazione, dal settembre 1944, gli Alleati qui vi imprigionarono i soldati tedeschi. Fu restituita agli italiani solo nel giugno 1947. Il Comune di Bologna sin dal luglio 1947 la utilizzò nuovamente come colonia estiva, e dal 1948 riprese l’attività a pieno regime, ospitando turni di 800 bambini. Il Sindaco bolognese Dozza fu qui più volte e il Comune di Bologna gestì la colonia sino al 1957, quando essa fu venduta dallo Stato alla Diocesi di Bologna, presieduta dal Cardinale Giacomo Lercaro. Tanto da divenire “Colonia Bolognese del Cardinal Lercaro”. La Diocesi la gestì sino al 1977, quando fu acquistata prima dai Ceschina, poi dall’imprenditore bellariese Aldo “Veleno” Foschi ed infine dalla Cooperativa Muratori di Verucchio. Il fallimento di quest’ultima ha finora bloccato ogni progetto di possibile recupero.

La Colonia Bolognese durante gli appuntamenti de “Il Palloncino Rossso”

Il libro raccoglie le testimonianze di numerosi bambini che la frequentarono soprattutto negli anni fra il 1950 e il 1970: Angela Tanossi, bimba bolognese in colonia dal 1958 al 1960 (“il costume da bagno che a quei tempi era di lana, magari fatto a mano dalla mamma o dalla nonna”); Amedeo Manieri, in colonia dal 1953 al 1958 (“i miei genitori, nonostante il mio parere contrario, continuarono a mandarmi in Colonia”, “con alcuni amichetti progettammo la fuga dalla Colonia”); Angelica Trotta, in colonia dal 1960 al 1965 (“Il treno che ci portava in Colonia non si fermava in stazione ma in aperta campagna in corrispondenza della Bolognese”; “l’inquadramento di noi bambini era sicuramente militaresco. Non penso però che gli adulti fossero tutti nostalgici del fascismo. Tutt’altro. Io alla Bolognese ho imparato ‘Bella Ciao’ e la cantavamo spesso e volentieri!”; “Certo che i locali, per loro ampiezza e i lunghi corridoi si prestavano ad ogni sorta di racconti dell’orrore”); Raffaella Amadori (“Quella non era solo una vacanza, era una terapia, per tentare di ammansire un’asma che mi toglieva il respiro, la forza, il sonno, l’appetito. Al mare stavo bene, respiravo, correvo, dormivo, addirittura mangiavo!”); Francesco Resca, in colonia nel 1940 (“Avevo otto anni nel 1940, ero figlio di operai e non sapevo cosa fosse il mare”, “un boato annunciò l’apparizione del mare attraverso i finestrini del treno”); Sandro Vanelli, in colonia dal 1950 al 1952 (“La cosa che mi piaceva di più era quando si andava a fare il bagno, ma la cosa più importante era che in quella colonia si mangiava tre volte al giorno invece che una volta sola come a casa mia”); Claudia Tabaroni, in colonia dal 1967 al 1971 (“Mi sono sempre sentita privilegiata ad andare in colonia, per me voleva dire gioco, sole, amici, mare. Anche se so che non per tutti i bambini era così”); Remo Tossani, in colonia nel 1948 (“Fui piacevolmente sorpreso, all’arrivo nella Colonia, della meticolosa pulizia personale cui fummo sottoposti”, “ci sottoposero a una scrupolosa visita medica alla bocca, ai capelli, alla pelle, agli arti (…) erano ancora abbastanza diffuse le malattie tipiche, retaggio della guerra: la scabbia, la pediculosi, la tubercolosi. Ricordo che dei bambini furono subito trasferiti in una palazzina isolata dal complesso, perché affetti da malattie che potevano propagarsi e contagiare la colonia”).

Fra le testimonianze anche quella del grande giornalista Enzo Biagi scovata fra le pagine de L’Espresso, ospite della Colonia al termine delle elementari nel 1931.

Le conclusioni della mostra/libro affidata all’allora Assessora Regionale Emma Petitti: “Il progetto di rigenerazione urbana partecipata ‘Riutilizzasi Colonia Bolognese’, promosso a Rimini dall’associazione Il Palloncino Rosso, mira alla riappropriazione, da parte dei cittadini, di spazi della città ora dismessi, ma che ne hanno determinato l’identità e la storia. Attraverso il recupero e la riqualificazione dei luoghi con attività culturali e artistiche si raccolgono le energie propositive dei cittadini, sempre più protagonisti del loro territorio. Un esempio di associazionismo che tiene vivi spazi abbandonati ma ricchi di potenzialità, consentendo di impostare la ‘governance’ delle politiche pubbliche verso obiettivi concreti e rispondenti ai bisogni dei cittadini”.

Paolo Zaghini