HomeCulturaQuei minatori della Valmarecchia morti nella tragedia di Arsia, la peggiore e la più dimenticata


Quei minatori della Valmarecchia morti nella tragedia di Arsia, la peggiore e la più dimenticata


3 Gennaio 2021 / Paolo Zaghini

Lidia Maggioli, Antonio Mazzoni: “Zolfo e carbone, storie di vita. La tragedia dimenticata di Arsia e la Valmarecchia, 1937-1940″ – Società di Studi Storici per il Montefeltro.

Il 28 febbraio 1940 ad Arsia, in Istria (allora territorio italiano), avveniva “il disastro minerario più grave della storia d’Italia, rimosso per decenni dalla memoria collettiva e dalla riflessione storiografica”. Situazione dunque ben diversa dalla ricostruzione e dall’attenzione sulle vicende della tragedia della miniera di Marcinelle in Belgio sedici anni dopo, l’8 agosto 1956, in cui morirono 262 minatori, di cui 136 italiani.

Ad Arsia erano confluite in pochi anni, verso la fine degli anni ’30, quasi 500 persone dall’area del Montefeltro: minatori si, ma spesso anche famiglie al seguito.

“Le attività estrattive, uno dei settori economici più promettenti dell’Istria, offrono ai minatori e operai in cerca di lavoro concrete opportunità occupazionali, in primo luogo nei giacimenti minerari di carbone e alluminio, in secondo luogo nelle cave di pietra e nei cementifici”.

La miniera di carbone di Albona-Arsia, tra gallerie, cunicoli e una miriade di cantieri distribuiti nei venti livelli, si sviluppa per circa 150 chilometri e s’inoltra in profondità fino a circa 500 metri sotto il livello del mare. Qui lavorano nei primi anni ’30 circa 1.200 addetti, per diventare oltre 10.000 nel 1942. L’Italia fascista, sottoposta a sanzioni economiche per l’occupazione dell’Etiopia, diede vita ad una politica economica di autarchia che mirava ad incentivare tutto ciò che contribuiva a fornire al Paese, ormai deciso ad entrare in guerra, risorse energetiche fondamentali per l’industria nazionale.

Il 7 agosto 1936, Mussolini, partito in idrovolante da Riccione, fa visita ai cantieri che stanno facendo di Arsia “la prima cittadina mineraria dell’Impero”. Qui, in pochi mesi, sorse un nuovo insediamento abitativo in grado di ospitare tremila persone tra minatori, tecnici, dirigenti e relativi famigliari.

I minatori del Montefeltro, operanti nelle miniere di zolfo della Montecatini (circa 1.600 negli anni ’30), rappresentavano “un’isola di dinamismo in un contesto rurale segnato da marcati tassi di analfabetismo, miseria e mortalità infantile, oltre che breve durata e precarietà della vita”. “Le famiglie operaie di Perticara, invece, possono permettersi consumi, servizi e un tenore di vita preclusi alle classi lavoratrici dei territori vicini dove i ritmi della campagna si susseguono secondo consuetudini secolari”. Ma il lavoro in minierà era un lavoro durissimo, pericoloso. Le statistiche dicono che nella miniera di Perticara dal 1812 al 1959 morirono, in vari e ripetuti incidenti, 157 minatori.

La Montecatini, in accordo con il governo fascista, vista la crisi di mercato dello zolfo, spinse nella seconda metà degli anni ’30 le maestranze qualificate in surplus verso il polo minerario di Arsia, in provincia di Pola.

E’ qui che il 28 febbraio 1940, alle ore 4.45, scoppia l’inferno. A seguito “dell’attivazione delle mine avviate dagli operai nella Camera uno della miniera Carlotta, al quindicesimo livello, per frantumare il blocco di lignite da estrarre, un inferno di fuoco e ossido di carbonio invade le gallerie adiacenti, in particolare quelle dei livelli 14, 16 e forse il 17. Il quindicesimo si trova a circa 250 metri sotto l’imboccatura del pozzo e a 200 metri sotto il livello del mare. Dopo l’esplosione, il gas investe la massa dei minatori che stanno defluendo per raggiungere il pozzo di risalita e uscire all’aperto. Molti di questi muoiono asfissiati”. Si dirà poi: errore dell’uomo. “Per ridurre i rischi, di solito le mine venivano fatte brillare nel momento più propizio, dunque con il minor numero di presenze nel sottosuolo, ma quel giorno non si attende che gli operai giunti al termine del turno siano già fuori”. In miniera, in quel momento, c’erano 432 minatori.

Le vittime dell’incidente saranno 185, i feriti 149. Sei morti sono originari del Montefeltro. Gli orfani saranno 242, di cui 17 del Montefeltro.

La gravità del fatto è percepita immediatamente dalle maestranze. Ma “l’accaduto crea grave imbarazzo nel Governo e nel partito fascista. Era già il terzo disastro che si verificava negli ultimi quattro anni all’interno della stessa miniera. In quelle gallerie devastate che dovevano testimoniare al mondo i trionfali risultati dell’autosufficienza energetica, si era calato il duce appena quattro anni prima, nell’estate del 1936. Nei giorni successivi ben poco trapela sulla stampa”. “La principale miniera carbonifera del paese non può rallentare e tanto meno interrompere l’attività estrattiva quando orma il duce ha deciso di portare in guerra gli italiani a fianco di Hitler”.

E’ così che questa terribile tragedia venne occultata, nascosta e presto dimenticata travolta dall’entrata in guerra dell’Italia pochi mesi dopo, il 10 giugno 1940. Le famiglie dei minatori morti vennero liquidate con una piccola somma e con la disponibilità ad ospitare gli orfani in strutture per i minori.

Gli Autori, attraverso lo spulcio certosino di archivi e pubblicazioni, di colloqui con familiari ricostruiscono le biografie delle sei vittime del Montefeltro, oltre quelle di alcuni altri marchigiani (due) ed emiliani (sei). I sei morti sono Francesco Alessi (28 anni) di Pennabilli, Primo Antonini (33 anni) di San Leo, Salvatore Crudi (44 anni) di Mercatino Marecchia, Giovanni Guerra (33 anni) di San Leo, Emilio Mosconi (31 anni) di Sant’Agata Feltria, Primo Manuelli (30 anni) di Talamello.

A questi profili biografici vengono aggiunti anche quelli delle due vittime della Valmarecchia morti nell’incidente del 7 settembre 1937 (complessivamente 13 i minatori caduti): Luigi Astorri (33 anni) di Sant’Agata Feltria, Primo Casadei (27 anni) di Sogliano.

Il commento degli Autori sulla tragedia è lapidaria: “un incidente dovuto alla politica estrattiva assillante e maldestra degli anni autarchici”. E sul silenzio inerente la vicenda: “In realtà neppure i governi della Repubblica ebbero la volontà e il coraggio di portare alla luce un disastro minerario del quale era palese la responsabilità italiana, iniziando a onorare in forma ufficiale le vittime. Il processo di rimozione pubblica è continuato per decenni, colpevolmente. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato. Il silenzio tombale è stato rotto dalle lodevoli iniziative promosse dalle comunità italiane d’Istria e dalla Regione Friuli Venezia Giulia, con pubblicazioni, studi, cerimonie e convegni. Ora nell’ottantesimo anniversario della tragedia del 28 febbraio, finalmente un’iniziativa che coinvolge l’intero territorio nazionale. E’ su ispirazione del professor Michele Maddalena di Formia che numerosi comuni italiani toccati dall’evento luttuoso, fra i quali i nostri della Valmarecchia, hanno contribuito alla realizzazione di una campana bronzea istoriata alla quale è stato dato il nome di Alma Mater Dolorosa. La stessa sarà donata al Comune di Arsia in ricordo dei 185 minatori che nel 1940 in quella terra persero la vita”.

Ma “la campana, in cammino verso la Croazia, si è fermata a Trieste il 27 febbraio 2020 a causa dell’epidemia di Covid-19”.

Paolo Zaghini