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Referendum, attenzione alla logica della demolizione


8 Febbraio 2017 / Oreste Delucca

Non nascondo che l’esito del referendum tenutosi il 4 dicembre 2016 mi ha profondamente amareggiato.

Con un colpo di spugna è stato cancellato l’esito di un percorso costituzionale che – pur tra comprensibili difficoltà, inevitabili mediazioni, indubbie imperfezioni – avrebbe tuttavia permesso alcuni risultati significativi: un sistema elettorale capace di proclamare un vincitore certo, dotato di una maggioranza parlamentare sufficiente per governare senza inciuci e ricatti; semplificazione e snellimento degli organismi decisionali e dell’iter legislativo per adeguarlo alle mutate esigenze odierne; eliminazione di quei conflitti fra istituzioni nazionali e regionali che oggi bloccano o rallentano all’inverosimile anche le realizzazioni più impellenti. L’insieme di queste acquisizioni avrebbe senz’altro dato al Paese maggiore efficienza e tempestività nel rispondere alle esigenze dei cittadini, consentendo in pari tempo consistenti risparmi di spesa.

Ma i cittadini hanno detto no; questo processo è stato bloccato e probabilmente non sarà possibile riprenderlo in tempi brevi. In questa scelta hanno giocato motivazioni molteplici e diverse.

Innanzitutto la politicizzazione dello scontro, per cui molti elettori hanno votato non pensando al merito del quesito referendario, bensì alle contrapposizioni fra i partiti e i movimenti schierati sulla scena italiana.

In secondo luogo credo che abbia pesato non poco la crisi in cui versa il Paese, per cui molti hanno giudicato che il Governo si stava spendendo per un obiettivo (la riforma costituzionale) mentre avrebbe dovuto maggiormente impegnarsi su altri versanti ritenuti dalla gente comune più assillanti ed urgenti (la disoccupazione, la sicurezza, i servizi sociali, l’immigrazione).

Indubbiamente vi è stato anche un difetto di comunicazione nel rapporto con i cittadini; ma al di là di questo aspetto credo che abbia avuto un peso determinante il grosso interrogativo che sempre si pone all’animo ed alla mente umana nei momenti di emergenza: dare la precedenza agli obiettivi immediati oppure a quelli di più largo respiro?

Come conciliare e coordinare gli interventi volti a risolvere i problemi dell’oggi, con quelli destinati ad impostare il domani?

In sostanza, accanto all’indubbio malcontento di fondo che ha portato a contestare le scelte governative a prescindere, il ragionamento non compreso o rifiutato dalla maggioranza degli italiani mi sembra il seguente: la riforma costituzionale non era una perdita di tempo oppure un disconoscere l’urgenza e la gravità dei guai che affliggono tante persone, ma voleva dotare l’apparato pubblico italiano di strumenti per poter risolvere più velocemente, con grosso risparmio di energie e di soldi proprio quei problemi.

Come dicevo, sono le questioni che sorgono sempre nei momenti di emergenza. A tale proposito mi viene spontaneo pensare alla gravità delle situazioni che si sono dovute affrontare nell’immediato dopoguerra, allorquando i programmi di ricostruzione dovevano far fronte contemporaneamente a tante calamità.

Dare la priorità alle case, o alle scuole, o alle fabbriche, o ai monumenti? In Italia e negli altri Paesi devastati dalla seconda guerra mondiale, non sempre le risposte sono state univoche e lungimiranti; talora la disperazione o le difficoltà estreme hanno reso meno lucide le scelte.

Ho ancora davanti ai miei occhi di bambino le tragiche distruzioni subite dalla città di Rimini. Quanti edifici, anche di carattere monumentale, brutalmente colpiti. E tuttavia, con uno sguardo più rispettoso per l’arte e la storia passata, non pochi di essi forse si sarebbero potuti salvare, anziché spogliarli definitivamente per fruire dei materiali di recupero.

E penso al Tempio Malatestiano, che non godeva davvero buona salute, scoperchiato, parzialmente crollato, inclinato su un fianco, gravemente ferito in molte sue parti artistiche. Se anche nel suo caso fosse prevalsa la logica della demolizione (e qualche rischio si è corso davvero!), probabilmente oggi, in luogo del monumento rinascimentale che tutto il mondo ci invidia (e viene a visitare), farebbe brutta mostra di sé uno dei tanti palazzacci sorti qua e là; i bassorilievi scolpiti da Agostino di Duccio (quelli strappati integri), venduti di contrabbando, sarebbero finiti in qualche collezione privata d’oltreoceano, mentre quelli frammentari marcirebbero in un bassofondo di museo; e i deliziosi puttini alati delle balaustre ornerebbero le vasche dei pesci rossi davanti alle ville di viale Principe Amedeo.

Oreste Delucca