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Ribelliamoci al virus della trasandatezza


7 Novembre 2020 / Lia Celi

L’illusione di poterne “uscire migliori” l’abbiamo già archiviata da un pezzo, e non ci vogliamo ancora rassegnare all’idea di uscirne peggiori. Ma i produttori del settore abbigliamento una certezza ce l’hanno: ne usciremo tutti più sciatti.

Già, perché se i cambiamenti morali sono difficilmente quantificabili e soprattutto relativi, quelli nel look e nella cura di sé sono sotto gli occhi di tutti. O meglio: proprio perché con il lockdown e il confinamento il nostro look non è più sotto gli occhi di tutti, abbiamo cominciato a disinvestire tempo, denaro e attenzione rispetto al guardaroba.

A che serve rinnovarlo o aggiornarlo con qualche outfit alla moda quando, un decreto dopo l’altro, le occasioni sociali si sono ridotte a zero? Anche chi la sera non si tuffava nella movida ci teneva a far bella figura in ufficio o a scuola. Nella prima ondata di smartworking e di teleconferenze c’era una certa attenzione almeno alla parte superiore del corpo, quella che veniva inquadrata nello schermo. Dalla vita in giù tutto era permesso – pantaloni della tuta, bragoni del pigiama, gli antiscivolo con gli orsetti, plaid – ma quel che spuntava dalla scrivania non doveva essere troppo casual, i capelli almeno pettinati e il viso con un minimo di trucco.

In questo triste sequel autunnale dell’emergenza Covid dal punto di vista dell’estetica ci stiamo lasciando andare. Ci si mette quel che si trova sulla sedia della camera da letto e la voglia di comprarsi (online, naturalmente) qualcosa di nuovo che non sia parente stretto di una tuta o di un pigiama è scomparsa, quasi come la credibilità dei virologi. A Rimini, zona gialla, si può ancora andare per negozi negli orari consentiti, ma che gusto c’è ad acquistare capi che, nell’ipotesi più probabile, vedrai tu davanti allo specchio, più qualche congiunto che da anni non fa caso a cosa hai addosso?

Con il lockdown è venuto meno il più potente carburante del gusto di vestirsi con ricercatezza e stile: i complimenti, i «come stai bene», i «dove l’hai preso?», le occhiate di ammirazione quando al ristorante apri il cappotto e riveli la mise accuratamente scelta per la serata. Se l’abito non è più anche una forma di comunicazione, basta che copra e scaldi.

L’effetto è una vera apocalisse per gli imprenditori della moda: che senso ha creare nuove collezioni quando almeno per un altro anno l’unico capo che si noterà, nelle rare uscite per motivi di stretta necessità, è la mascherina? A che serve essere eleganti, se la sera non si esce più? «Del resto non posso andare a far la spesa con un abito di paillettes,» ha osservato, in preda allo sconforto, Massimiliano Parente, boss di un marchio di tendenza.

Un momento. Fermi tutti. Davvero non si può? Voglio dire: è giusto che la pandemia ci rubi proprio anche il piacere di vestirci bene? E’ saltato tutto, lavoro, scuola, matrimoni, serate a teatro o al cinema, party in discoteca. Facciamo saltare anche le convenzioni dell’abbigliamento e sfidiamo il grigiore e la tristezza dell’era Covid mettendo di giorno i vestiti che non possiamo più indossare nelle occasioni mondane. La spesa in paillettes: perché no? Passeggiare il cane in abito lungo: e allora? Lo smoking in fila alle Poste: qualcosa in contrario?

Sarebbe una forma di reazione civile e allegra contro la depressione dilagante, un’azione di resistenza umana e anche un segno di vicinanza ai lavoratori nel settore dell’abbigliamento, così importante per il nostro Paese. In attesa che un vaccino ci liberi, oltre che dal coronavirus, dal virus della trasandatezza.

Lia Celi