Ma i Riminesi sono Romagnoli? Una rivelatrice antologia di luoghi comuni
11 Settembre 2017 / Paolo Zaghini
“La Romagna del mito nelle pagine di grandi giornalisti, saggisti e scrittori” – A cura di Roberto Casalini – Il Ponte Vecchio.
Bene ha fatto Roberto Casalini, patron della casa editrice Il Ponte Vecchio di Cesena, a rieditare questi testi di giornalisti, scrittori, saggisti, poeti dedicati alla Romagna. Sono interventi imperdibili per comprendere “ora nell’asprezza della critica, ora nelle rappresentazioni divertite e maliziose, ironiche e affettuose di grandi scrittori, la Romagna di oggi, protesa, con tutta la ricchezza della sua tradizione e con la consapevolezza della sua identità, alla costruzione del futuro”.
L’antologia redatta da Casalini, in occasione del 25° anniversario de Il Ponte Vecchio nato nel 1992 (nel progetto essere l’editore per la Romagna) ci propone brani di Rino Alessi, Enzo Biagi, Pietro Camporesi, Guido Nozzoli, Olindo Guerrini, Giuseppe Borgese, Guglielmo Ferrero, Guido Piovene, Aldo Spallicci.
Al termine della lettura mi sorge però un dubbio grande come una casa: ma i riminesi sono romagnoli? Perché nei tantissimi esempi riportati dagli Autori, Rimini non è mai citata. La Romagna per tutti loro è Ravenna, Forlì e Cesena (in alcune citazioni finisce a Santarcangelo). Dice Guido Nozzoli: “Questa Romagna, tanto per intenderci, dove comincia e dove finisce? Nessuno lo ha mai stabilito con precisione. Dunque non una regione geografica ma una regione del carattere, un’isola del sentimento. Un pianeta inventato dai suoi abitanti”. Mi permetto comunque di rivendicare l’appartenenza alla Romagna anche di noi Riminesi, magari i più meridionali e forse atipici dei romagnoli, ma comunque romagnoli.
Detto ciò, gli Autori scelti da Casalini si divertono a descrivere i romagnoli secondo alcuni schemi che spesso hanno fatto il giro d’Italia e d’Europa. Guglielmo Ferrero, antropologo criminale e collaboratore di Cesare Lombroso, parla della Romagna ottocentesca ed inizio Novecento come esempio di una civiltà violenta: “La grande virtù dell’uomo è in Romagna il coraggio personale: nessuna ingiuria suona più atroce che quella di vigliacco”. “Tutti vanno armati, a dispetto delle leggi e dei carabinieri; e hanno una specie di affetto e di tenerezza per i loro fucili e revolvers che ricorda quella dei popoli primitivi. Senza armi un buon romagnolo non si sente interamente vestito e interamente uomo”. Ma questo tema, secondo Piero Camporesi, viene da lontano: “La storia della Romagna nel Cinquecento è una storia tutta insanguinata”. “L’immagine del romagnolo, così come appariva ai forestieri durante tutto l’arco del Cinquecento e del primo Seicento, è sostanzialmente monocroma, tutta intinta dei colori del sangue, della ferocia, della violenza”. Del resto i romagnoli, fra ‘400 e ‘600, “esercitavano quasi esclusivamente la agricoltura o il mestiere delle armi: oltre che di cereali la Romagna era anche serbatoio di soldati”.
Ferrero ricorda poi un ballo di gran lusso dato a Cesena: “I fieri romagnoli si erano quella sera vestiti come i dandies più eleganti”. Ma se “si fosse potuto vuotare le tasche delle marsine! Ne sarebbe uscito fuori un arsenale di pistole, coltelli, di revolver, giacchè quasi tutti erano andati al ballo armati sino ai denti. Fuori il damerino, sotto il romagnolo. Il ballo poi, tutto insieme, sembrava una ridda. Maschi sani e robusti, eccitati dal contatto di quelle carni fiorenti e solide di donna. Barili di vino, montagne di polli e di pane sparivano; ballerini e ballerine, rossi in faccia con gli occhi lucenti divoravano avidamente dei mezzi polli, vuotavano le bottiglie”. Riassumendo, per Ferrero, i romagnoli erano violenti, gaudenti, crapuloni.
Ma anche Giuseppe Antonio Borgese, scrittore e giornalista, parla della tradizione in Romagna di “splendore epicureo e passionale”. “Dicendo ‘sangue romagnolo’ s’intende il più rozzo complesso pagano che si possa trovare in Europa. La generosità e l’ospitalità sono primitive, la violenza improvvisa, il peccato senza rimorso o addirittura non sentito come peccato. Il delitto, specialmente passionale o politico, è assai diffuso”.
Irrisa e vilipesa come marca di confine irrimediabilmente chiusa in un istinto di violenza, e dunque oggetto di una letteratura duramente e quasi ridicolmente avversa, la Romagna trovò all’improvviso – con l’ascesa di Benito Mussolini – il tempo del riscatto, una novità assoluta. L’uomo nuovo non poteva che provenire da una terra felice, e i romagnoli non potevano che essere il modello della nuova Italia e dei nuovi italiani.
Secondo Rino Alessi, “la Romagna non fu mai femminista e forse non lo è nemmeno oggi. Eppure in nessuna parte d’Italia a quei tempi la donna godeva una posizione d’indipendenza, di rispetto e di autorità familiare maggiore che in Romagna. La donna era l’arzdòra. Essa aveva il buonsenso di capire che l’eguaglianza dei sessi è una bestemmia contro Dio e la natura, e la parità dei diritti tra l’uomo e la donna, un’assurdità insopportabile. L’arzdòra difendeva l’ineguaglianza dei sessi perché sentiva l’orgoglio della propria femminilità e le piaceva di sapere che il suo uomo era un vero uomo e non un essere intermedio tra Adamo e Eva”.
Potrei riprendere dal libro tanti altri spunti, alcuni divertenti altri meno. Ma, ripeto, consiglio la lettura di questa antologia per capire quanta strada in Romagna abbiamo fatto in questi ultimi due secoli.
Chiuderei con un paio di affermazioni. La prima di Guido Nozzoli: “Il romagnolo di oggi, come quello di ieri, più che nel ferro di cavallo e nelle ingenue profezie degli Smĕmbar, crede nelle sue braccia, nella sua prodigiosa capacità di lavoro”. La seconda di Aristarco (nom de plum di Casalini): “Alcuni tratti del nostro carattere sono un patrimonio: la vigoria del temperamento, la passione politica e la forza delle idee, la dura nettezza della loro espressione, la estroversa e orgogliosa considerazione di sé, che si esprime in uno degli aspetti più evidenti del Romagnolo, l’ostinazione, la capacità di tenere le posizioni. In Romagna, tener duro, non perdere la faccia sono ancora oggi imperativi senza condizione e senza resa”.
Mi piacciono questi romagnoli!
Paolo Zaghini