Le recenti immagini della commemorazione del 36esimo anniversario della strage di Bologna, in cui i musulmani hanno sfilato insieme a tutti i bolognesi contro ogni terrorismo, mi hanno molto colpito; ripensando a quella strage – il più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra – che non ho potuto vivere, ma che ho studiato sui libri di storia, mi è venuta voglia di rivedere un vecchio film, che ha come cornice proprio quel triste episodio: “Da zero a dieci” di Luciano Ligabue.
La grandezza di questa pellicola, a mio avviso, sta nell’abilità di rendere una lancinante dinamica: quell’attentato non provocò solo 85 morti ed oltre 200 feriti, ma molti di più: una bomba può uccidere istantaneamente, il dolore di una perdita, invece, molto lentamente. Goccia dopo goccia, lo stillicidio erode nel profondo e, alla fine, presenta puntuale il suo conto, se non si trova il modo di farlo emergere prima.
La strage di Bologna possiamo dire sia lo sfondo metafisico della vicenda, che si ambienta invece proprio a Rimini.
Baygon, Libero, Biccio e Giove sono quattro amici quasi quarantenni che vivono a Correggio (città del rocker emiliano), e conducono una vita tranquilla. Durante l’estate del 2000 decidono di trascorrere un fine settimana a Rimini, esattamente 20 anni dopo la loro prima, acerba esperienza nella riviera romagnola.
Qualcosa, allora, andò storto: si percepisce, sin da subito, dal retrogusto amaro delle loro battute, da un riso mai del tutto vero e liberatorio. Obiettivo di questo remake di mezza età sarà dunque quello di concludere in grande quel week end, che per qualche motivo rimase incompiuto, con le stesse ragazze di allora.
Altro motivo ricorrente della storia è la mania di Giove (interpretato da Stefano Pesce) di dare dei voti – Da zero a dieci, appunto – a tutto ciò che lo circonda: pensiero fisso che mette con le spalle al muro la brigata: affioreranno allora, voto dopo voto, fallimenti e successi, delusioni, soddisfazioni, crisi esistenziali e depressioni che hanno segnato gli ultimi 20 anni dei protagonisti; emergerà, in modo ancora più evidente, una delle poche certezze di questo mondo: il tempo non si può fermare, neanche a Rimini, città dove ogni desiderio e ogni attesa sembrano esaudirsi.
Libero: “Secondo te ci siam fatti vedere abbastanza? Ci siam fatti sentire abbastanza? Voglio dire si è voltato qualcuno mentre passavamo oppure siam passati e basta?!.
Giove: “Oh Ciccio… non è che siam passati. Stiamo ancora passando…”.
Sta tutto qui il dilemma che assale i nostri quarantenni: abbiamo dato o dobbiamo ancora dare? Siamo stati o siamo ancora, adesso, in questo momento? Siamo stati qualcuno o siamo ancora qualcuno? Una versione emiliano-romagnola, insomma, di ciò che Freud, leggendo Barrie, chiamò brillantemente sindrome di Peter Pan: meglio l’isola che non c’è (Rimini) o il mondo reale (Correggio)?
Le avventure di Peter Pan sono estremamente calzanti anche per un altro motivo: nel testo originale, ciò che noi in Italia traduciamo con “l’isola che non c’è” è “neverland”, che conserva in inglese anche un’accezione temporale, oltre che spaziale. In Da zero a dieci, infatti, non vi è solo l’opposizione provincia-riviera, ma anche un’antitesi fra un tempo lineare, come la grigia routine del quotidiano, ed un tempo fuori dal tempo, come l’estate riminese.
Non vi resta che scoprire perché quel week end negli anni Ottanta rimase incompiuto, come del resto rimarrà anche il secondo; non vi resta che scoprire cosa c’entri, con tutta questa storia, la strage di Bologna. Ma per realizzare ancor più questo film, che rimane forse spiacevole e piuttosto slegato nella sua diegesi, vi invito a venire a Rimini, e scoprire davvero perché possa essere considerata l’isola che non c’è.
È un’esperienza che occorrerebbe fare, almeno una volta nella vita. L’importante è che rimanga una vacanza. Perché è vero ciò che diceva Wilde, e che scriverà Libero nella sua lettera d’addio: “essere immaturi significa essere perfetti”, ma essere perfetti, a ben vedere, significa non essere uomini.