A quanto pare il Grande Vecchio, il burattinaio senza nome che manovrava i fili di tutte le trame della notte della Repubblica, era una leggenda metropolitana, nata quasi per caso e diffusa, in buona o cattiva fede, da politici e stampa. La Grande Vecchia invece non è una leggenda. Esiste eccome, ha una faccia, un nome e due mani che però non reggono fili, tengono saldamente il volante di un’utilitaria. O meglio, lo tenevano fino a pochi giorni fa, quando Giuseppina, vispa anziana di Bondeno, si è vista sequestrare l’auto dai carabinieri. Fermata per un controllo mentre gironzolava per il centro del paese all’una di notte, ha mostrato agli agenti una patente di guida risultata scaduta nel 2022. La Giuse ha spiegato che stava tornando da una bisboccia con gli amici della Casa Operaia e non trovava più la strada di casa. Ma l’anno che ha sbigottito di più i poliziotti non è stato quello della scadenza della patente, bensì quello di nascita della signora: 1920. Coetanea di Fellini e di Wojtyla, Giuseppina non ha nessuna intenzione di raggiungerli e a 103 anni ha una salute e una grinta invidiabili, e un’ancora più invidiabile vita sociale, favorita dalla sua passione per il
Mi sa che non è la prima volta che scrivo di uova di Pasqua su Chiamamicittà.it, ma mi ripeto volentieri. La stagionalità fa sì che si parli troppo poco di uno dei più entusiasmanti manufatti dell’ingegno umano: l’uovo pasquale infatti unice la sacralità di una forma da millenni ricollegata alla perfezione del cosmo e al miracolo della vita, a quel miracolo organolettico che è il cioccolato. Che sia al latte o fondente, le lisce pareti curvilinee ne esaltano il colore, la lucentezza e il profumo molto più dei tradizionali formati a tavoletta o a cubetto. Un matrimonio perfetto in cui i partner si esaltano l’un l’altro, e la sorpresa è quasi un intruso, un terzo incomodo. Il vero ingresso nella maturità non lo decide l’anagrafe o un esame di Stato. Sei veramente maturo quando non ti importa più di cosa c’è dentro l’uovo di Pasqua, ma della qualità del cioccolato di cui è fatto, anche perché molte dolorose esperienze del passato ti hanno insegnato che è più facile beccare il superpremio al gratta-e-vinci che trovare nell’uovo qualcosa che non sia brutto, rotto, difettoso, inutile o tutte queste cose insieme. Se devo fare una statistica in base alle uova che sono passate
Siamo a pochi giorni dall’Otto marzo, festa della donna, e come donna già mi viene la depressione, perché sembra che da festeggiare ci sia veramente poco. Dico ”sembra” perché non bisogna mai smettere di celebrare le conquiste che abbiamo raggiunto, vittorie che rendono l’ultimo secolo il più paritario della storia umana (sulla preistoria non abbiamo notizie certe, anche se pare che l’immagine del cavernicolo che trascina per i capelli la compagna sia un’invenzione moderna e che il patriarcato sia nato "solo” intorno al Mesolitico). I diritti civili e politici raggiunti dalle donne non vanno mai dati per scontati: la triste situazione di Paesi come l’Iran e l’Afghanistan ci dimostra che non bastano un paio di generazioni di donne in pantaloni e capo scoperto, libere di frequentare l’università e di esercitare professioni importanti, per scongiurare per sempre il rischio di rotolare verso regimi sessisti e oppressori che impongono veli, divieti e isolamento in casa. C’è ancora domani, il fortunatissimo film di Paola Cortellesi (dall’8 all’11 marzo verrà riproposto al cinema Tiberio, dove le poche e i pochi che non l’hanno ancora visto possono recuperarlo) ci ha raccontato le difficoltà delle nostre nonne in un’Italia che aveva ritrovato la libertà ma non garantiva
Sono sempre più dell’idea che chi ci offre una via di fuga dalle angosciose notizie d’attualità e ci distrae da eventi che ci convincono che il mondo sta andando a rotoli vada ringraziato. Grazie, quindi, a Fedez e a Chiara Ferragni, che con le loro beghe coniugali eclissano per qualche minuto nella pubblica attenzione le guerre, i massacri, le manganellate della polizia e gli squalificanti battibecchi della politica alla vigilia delle elezioni in Sardegna, per trasformarci tutti in comari con il fazzoletto legato sotto il collo e la borsa della spesa al braccio, ognuna pronta a dire la sua sulla separazione più social del secolo. È colpa di lui, no, è colpa di lei, lui è debole di testa, lei è una furbacchiona, lui è il classico maschio vigliacco che abbandona la nave che affonda, no, è lei che lo ha messo fuori di casa perché non l’ha difesa abbastanza nelle sue traversie giudiziarie, e ora che ne sarà di quei due poveri bambini innocenti? A discuterne non sono solo le donne, tradizionalmente più attente e curiose verso la vita privata delle celebrità, ma anche i maschi: se l’ex Twitter è un termometro, si direbbe che la notizia ha scaldato più
«Ogni donna è seduta sopra la sua fortuna e non lo sa», diceva Mae West, seduttrice disincantata e ben consapevole del potere della femminilità quando è unita a una sana e intelligente ambizione. Parafrasando Mae, potremmo dire che ogni proprietario di cani o gatti ogni giorno raccoglie la cacca della propria fortuna e non lo sa. Oddio, non proprio “ogni” proprietario. Sono sempre di più quelli che si accorgono di avere in casa una risorsa a quattro zampe e sanno trarne profitto, grazie ai social, naturalmente. E se già la parola “influencer” vi fa digrignare i denti, “pet influencer” (o “pupfluencer”) rischia di procurarvi l’ulcera, perché non indica un essere umano che postando foto e video ha conquistato un tenore di vita che voi potreste raggiungere solo sbancando il Superenalotto, ma un animale da compagnia trasformato dal suo padrone in una star del web profumatamente pagata. Peggio ancora: a volte il padrone è a sua volta un influencer profumatamente pagato – o lo era almeno fino a poco tempo fa, come Chiara Ferragni, la cui cagnolina Matilda, un bulldog francese deceduto lo scorso luglio alla rispettabile età canina di 13 anni, era diventata una celebrità, con 400mila followers su Instagram. Anzi,
Dire che i giorni della kermesse sanremese hanno assunto l’importanza, la partecipazione collettiva e la solennità che i riti della Settimana santa hanno perso da un pezzo non è una battuta, e nemmeno una constatazione particolarmente originale. Le ultime edizioni sono caratterizzate da serate interminabili che costringono gli spettatori a veglie notturne estenuanti in un’atmosfera suggestiva da rito misterico, che per i veri credenti prosegue fino al sorgere del sole insieme all’inesauribile Fiorello, mentre a bordo della nave Costa si celebra una specie di rave (forse oggi una nave è l’unico posto dove nell’era Meloni si può fare un rave-party: quando la vedetta grida “Polizia a babordo!” si leva l’ancora e ci si mette al sicuro in acque internazionali). Ma mentre in Italia per cinque sere un luogo destinato allo spettacolo diventa quasi una cattedrale, in Inghilterra avviene l’opposto: una cattedrale – e che cattedrale: quella di Canterbury, diocesi il cui arcivescovo è la massima autorità spirituale anglicana – diventa una discoteca. Per rivitalizzare i luoghi di culto della Chiesa nazionale, che da tempo è diventata una cosa da vecchi babbioni, a cominciare dalla Royal Family, si è deciso di aprirli occasionalmente alla musica dance, nella versione “silent music”. Cioè, le
C’è televendita e televendita. Quelle che passano sul mio televisore mi propongono materassi ergonomici, tapparelle mirabolanti, poltrone ultra-rilassanti con sconti pazzeschi “solo per questo mese”, prima rata l’anno prossimo e un servizio di porcellana in omaggio, chiama ora! Sui teleschermi americani invece può capitare di imbattersi nell’offerta di un castello medievale con annesso borgo, incastonato in un verde paesaggio italiano, a soli due milioni di dollari, per di più negoziabili. E se sei un avvocato in pensione di Walla Walla, nello stato di Washington, alzi il telefono e chiami. Che avvocato americano sei, se a 67 anni non puoi scucire senza battere ciglio due milioni di dollari e infischiartene se per raggiungere la tua seconda casa ci vorrà ogni volta un volo transoceanico? E così oggi i signori del castello Boccadiferro di Serravalle, in Valsamoggia, sono mr. e mrs. Steven Allen Hill, che a quanto pare sono già venuti a prendere possesso del feudo e a conoscere i villici per quanto possibile, non conoscendo i nuovi castellani nemmeno una parola di italiano. Non sappiamo se a suo tempo l’agente immobiliare ha riferito ai due americani la sinistra leggenda che circonda il castello, dove nelle notti di maggio apparirebbero i fantasmi delle
E così gli italiani, sempre scettici rispetto ai superuomini, specialisti nell’imbrattare l’aura che circonfonde gli eroi, primi al mondo nello spernacchiare chi viene proposto come modello di virtù, abnegazione e coraggio, hanno trovato finalmente un idolo in cui riconoscersi senza riserve. No, non è Jannik Sinner, che venerdì ha battuto meritatamente Nole Djokovic e questa mattina sta affrontando Medved nella finale degli Australian Open (del resto non saprei se è più difficile per l’italiano medio riconoscersi in Sinner perché è un miliardario 23enne tedescofono dall’aspetto scandinavo e con residenza a Montecarlo, o perché è estremamente educato e corretto, sia in campo che fuori). L’eroe incoronato dall’umore popolare è Fleximan, un nome che sembra preso dai vecchi fumetti di Alan Ford e il gruppo Tnt e andrebbe declinato al plurale, perché ormai è un nome collettivo che riunisce i sempre più numerosi Zorro anti-autovelox spuntati in giro per la penisola, armati non di spada ma di flessibile o giratubi. Le imprese che hanno guadagnato a Fleximan la stima e la gratitudine tanto dell’uomo della strada quanto del leone da tastiera (quasi sempre le due categorie coincidono) sono i vandalismi contro gli odiati dispositivi che rilevano i superamenti dei limiti di velocità,
Chi ha parenti stretti ospedalizzati e deve contemporaneamente badare al resto della famiglia probabilmente oggi avrà altro da fare che leggere questa mia rubrica, e dubito che durante la settimana si sia dedicato o dedicata alla lettura dei giornali, già è molto se avrà avuto il tempo per respirare. Ed è un peccato, perché forse ci avrebbe trovato un piccolo motivo di sollievo, e forse di orgoglio: finalmente ha almeno una cosa in comune con il principe William d’Inghilterra. Il povero ragazzo (ultraquarantenne, a dire la verità, e pure pelato, ma per i media resta sempre l’orfanello di lady Diana) in questi giorni deve fare i conti con i concomitanti ricoveri di sua moglie Kate, per una non meglio precisata patologia all’addome, e del suo regale padre Carlo, la cui prostata ingrossata necessita di un intervento. Non c’è bisogno di un particolare attaccamento alla corona britannica per augurare pronta e completa guarigione ai blasonati pazienti, se non altro perché così i giornali italiani smetteranno di pubblicare articoli come quello apparso venerdì scorso su Repubblica, che a dispetto del nome ha un cuore che batte per la monarchia, almeno quella inglese: «William solo con i figli: su di lui tutto il peso
Ero già pronta a caricare a fiele il mio tablet per scrivere un graffiante corsivo contro il concorso Miss Suocera, celebrato nei giorni scorsi in un hotel di Bellaria-Igea marina. Mi preparavo a sparare le domande retoriche di rito: siamo nel 2024 o cosa? Non si era detto basta con queste pagliacciate sessiste? Dobbiamo ancora sforzarci di smentire con mezzucci patriarcali e condiscendenti il cliché anni Cinquanta della suocera-megera, quando la madre della sposa e/o dello sposo sono quasi sempre la garanzia della solidità e della serenità della famiglia italiana contemporanea, visto che lo Stato continua a non garantire servizi e supporto? Poi ho guardato la foto di gruppo delle premiate (la prima classificata, ma c’era una fascia per tutte, com’è giusto, da miss Suocera Radiosa a miss Suocera Fashion all’immancabile miss Suocera Sprint), e il livore mi è sbollito, lasciando il posto a un’ammirazione commossa. Le concorrenti, di età compresa fra i cinquanta e i sessanta-e-qualcosa – mie coetanee, praticamente – sono delle gnocche da paura. Qualcuna snella, qualcuna più curvy, tutte con capelli lunghi ultra-curati, sorrisi smaglianti e pelle perfetta. Altro che la suocera da barzelletta, con il culone, i bigodini in testa e l’aria da vegliarda arcigna! E
Pare che il Blue Monday, il giorno più triste dell’anno per gli abitanti dell’emisfero settentrionale, coincida con il terzo lunedì di gennaio, che nel 2024 cadrà il 15. A renderlo “blue”, secondo gli esperti, saranno il tempo atmosferico, che in gennaio spesso dà il peggio di sé come precipitazioni e temperature; la constatazione che le rotondità in zona pancia-fianchi non erano gonfiore o ritenzione idrica passaggera, ma sono il fio degli eccessi alimentari natalizi e se ne andranno solo con fame, sudore e lacrime; i primi scontri fra i buoni propositi di Capodanno e la nostra umana debolezza; la scoperta che tre quarti della roba che ti hanno regalato – vestiario, dispositivi, libri, gadget – è inutile o scadente e comunque non ti rende felice. A questi elementi mi sento di aggiungerne un altro: le permanenza delle decorazioni natalizie in giro per la città. Poche cose riescono a immalinconirci più degli addobbi dopo l’Epifania, e sarebbe meraviglioso se la cara vecchina con le scarpe tutte rotte si portasse via, insieme alle feste, tutto ciò che per un mese e mezzo ce le ha fatte attendere, sognare e celebrare. Come per un incantesimo maligno, nel giro di una notte lucine, festoni e
Che si stesse un po’ mascolinizzando l’avevamo già capito qualche giorno prima che Libero la proclamasse Uomo dell’anno. Non quando ha annunciato di voler essere chiamata “il presidente del Consiglio”, come se l’articolo femminile fosse una deminutio del prestigio della carica, ma quando ha annullato per ben due volte la conferenza stampa di fine anno per motivi di salute – influenza o sindrome otolitica? – che peraltro non le hanno impedito di viaggiare in aereo da Milano a Roma sotto Natale insieme alla figlia e all’ex compagno Giambruno. Indisposizioni fortunatamente non drammatiche, dunque, di quelle che di solito noi donne teniamo a bada buttando giù una tachipirina e stringendo i denti, soprattutto nel periodo delle feste, quando per mogli e madri gli impegni, anziché diminuire, raddoppiano. Sono gli uomini quelli che dànno forfait per due linee di febbre e languono come moribondi reclamando brodini e assistenza. Ecco il privilegio virile di cui Giorgia Meloni si è opportunamente appropriata per calarsi ancora meglio nei panni dell’uomo di Stato, in particolare di quello che è stato il suo vero padrino politico, Silvio Berlusconi: ricorderete come, durante i suoi vari mandati da premier, ogni tanto sparisse per non meglio identificate «ragioni di salute», e