Scherzi della memoria, di certi sindacati, degli amici: e allora scherziamo anche noi
12 Aprile 2018 / Nando Piccari
La “benzina” per scrivere questo mio odierno corsivo sono stati tre articoli apparsi nei giorni scorsi su questa testata.
Gran brutto affare la caduta di memoria
Scriveva Manuela Fabbri nella sua polemica contro il progetto “Beach Arena” (che non ho ben capito se sia naufragato o in qualche modo solo rimandato): «Sarebbe bastato che qualcuno ricordasse la vicenda tormentata della “Palestra più grande del mondo” di Vittoria Cappelli, nata nello stesso luogo l’estate dell’84 (ai tempi della Milano da bere per intendersi) per trarne insegnamento. Sindaco Massimo Conti (segretario Psi), vicesindaco Nando Piccari (segretario Pci)».
Francamente non so dire – né in questa sede m’interessa scoprirlo – quanta analogia vi sia fra i due eventi, così lontani nel tempo; i quali, però, almeno in una cosa si differenziano: per “Beach Arena” i privati hanno investito qualche loro risorsa; la “bagnarola” della Cappelli si limitò di fatto a ricevere i sovrabbondanti finanziamenti di Comune e Regione. Voglio invece ristabilire quella che, nel suo piccolo, è “una verità storica”.
Tagliando le cose con l’accetta, come le capita spesso, e facendo ricorso a ricordi abbondantemente inesatti, è infatti palese che Manuela mi faccia passare per uno degli sponsor di quella cavolata.
All’epoca non ero affatto vicesindaco, ma segretario della Federazione provinciale del PCI e capogruppo in Consiglio Comunale, mentre Manuela costituiva già allora “lo spirito guida” di una formazione radicale molto più presente di oggi, buona parte dei cui esponenti non disdegnava a quel tempo le blandizie della “Rimini socialista da bere”. Nelle mie “due vesti politiche” contrastai fortemente l’avvento di quel pallone gonfiato sulla spiaggia, fino al punto di arrivare a polemizzare pubblicamente con l’allora Presidente della Regione. Mi è già capitato di ricordarlo in un articolo pubblicato da Quiriviera il 17 luglio 2011 e ripreso nella raccolta Graffia, graffia, qualcosa rimane?, edita da Panozzo, del quale ripropongo qui uno stralcio:
Qualcuno forse ricorda che nell’estate ‘84 una porzione di quell’arenile venne graziosamente concessa in uso ad una nota esponente della “scuderia socialista Conti-De Michelis”, per essere occupata da un banale tendone ad aria compressa con dentro qualche attrezzo ginnico e due vasche per idromassaggio: una “gabbiettata” ridicolmente pubblicizzata come “la palestra più grande del mondo in riva al mare”. Poiché fra i sostanziosi finanziamenti pubblici ricevuti campeggiavano anche quelli del Comune, il PCI riminese – all’epoca ne ero segretario di federazione e capogruppo in Consiglio Comunale – fu quasi sul punto di dover aprire la crisi di giunta, tanta era la protesta dei riminesi che vedevano compromesso il loro “andare a marina”. Condussi una faticosa “trattativa” con il PSI, protettore della vip craxiana, conclusasi con una mediazione su tre punti: il ridimesionamento dell’area sottratta alla libera balneazione; l’installazione di un gabinetto pubblico a spese della lady socialista, come risarcimento per il disagio creato agli avventori della spiaggia libera (ma più ancora, oggi lo confesso, per una sorta di voluto “sfregio classista”); la garanzia di intangibilità per il piccolo “bocciodromo fai da te”.
Mi fa comunque piacere che Manuela prenda oggi le “distanze a posteriori” da quella vicenda, perché se la memoria non tradisce anche me, non ricordo che all’epoca l’abbia fatto.
Che sia io ad essere troppo impressionabile?
Un pensiero pieno di gratitudine alla Polizia di Stato che il 10 aprile ha celebrato la sua Festa, a cui uno dei sindacati (il SAP), incredibilmente, quest’anno non ha preso parte – come a dire che… ha rinunciato a festeggiarsi – in segno di “stravagante solidarietà” al neo-deputato legaiolo Gianni Tonelli, fino a ieri suo Segretario Generale.
Costui è un personaggio noto alle cronache per molteplici ragioni: per essere stato un sindacalista talmente iperattivo da aver percepito nel 2016 – scrive L’Espresso – «rimborsi spese per una cifra che oscilla tra i 3 e i 4 mila euro al mese»; per l’inconsueta coincidenza di risultare anche titolare di un’impresa immobiliare in Romania; per essersi a più riprese scagliato contro chi osasse chieder conto del comportamento dei tutori dell’ordine che avevano in custodia Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, i due ragazzi morti in circostanze mai totalmente chiarite.
Andando sul concreto, la ragione dalla diserzione del SAP dalla Festa è presto detta.
Il Tonelli era ormai diventato un “aficionado 5 stelle”, come lui stesso ha scritto: «…un partito col quale ho più volte collaborato (..) Ho infatti partecipato alle loro dirette streaming, alle loro riunioni, ho inviato pareri e risposto a quesiti, oltre a doverli infinitamente ringraziare per il grande sostegno che mi hanno gentilmente fornito…». E pare di capire che la cosa non piacesse troppo al Capo della Polizia, Franco Gabrielli.
Un giorno, però, a rubare il posto al Tonelli nel cuore dei grillini arriva uno stretto collaboratore di Gabrielli stesso, il Prefetto Stefano Gambacurta, al quale il “clan dei casaleggesi” affida addirittura la stesura di un sostanzioso capitolo del programma elettorale di Di Maio: «La riorganizzazione delle forze dell’ordine». Ma questa volta la cosa – pare ancora di capire – non infastidisce il Capo della Polizia; al quale il Tonelli rivolge pertanto le sue rimostranze, un po’ come si faceva da bambini, allorché ci si si esprimeva in quell’italiano stentato che usa ancor oggi Di Maio: “A me mi hai sgridato ma a lui non ci hai detto niente! Ti sembrasse giusto, eh?”
Per fortuna a ripagare il Tonelli ci penserà poi Salvini, trasformandolo seduta stante da “mancato astro nascente grillino” a candidato legaiolo.
Le cose che a questo punto non capisco sono due. La prima: perchè il SAP se l’è presa tanto con il Capo della Polizia, anziché essergli grato? Se infatti Gabrielli non avesse “martirizzato” l’intrepido leader sindacale, chi può dire se a Salvini avesse ugualmente fatto comodo candidarlo? La seconda: ma perché mai infilarsi in una retrodatata querelle “Cinque Stelle contro Lega” proprio ora, quando fra Di Maio e Salvini sta instaurandosi una così armoniosa “corrispondenza di amorosi sensi”?
Forse perché sto diventando troppo impressionabile, ci sarebbe anche una terza cosa che non capisco; anzi, che mi fa proprio senso. Mi chiedo come possano certi altolocati servitori della nostra Repubblica democratica – per di più se tutori dell’ordine o magistrati – non sentirsi alquanto sfigati prestandosi a fare da illuminati scribacchini a favore del turpe qualunquismo grillino. O non essere colti da un sussulto di sano ribrezzo mettendosi in combutta con il tronfio caporione leghista.
Suvvia, scherziamoci sopra
Mentre leggi un testo impegnativo può talvolta succedere di interromperti, preso dal dubbio di non stare capendo bene; ma in genere ti è poi sufficiente retrocedere nella lettura di qualche riga e l’incertezza si dipana. Con l’articolo di Chicchi dell’altra domenica («Perché dico sì a un governo 5 Stelle-Pd») non mi è proprio andata così: l’ho riletto e ri-riletto, assalito ogni volta dal medesimo “domandone” finale: “Ma come può, uno con la sua cultura, la sua formazione e la sua sensibilità, non provare almeno un pizzico di civile ripulsa verso il clan dei casaleggesi”?
Se il 4 marzo LeU avesse conseguito quel 10-12% millantato alla vigilia e fosse così diventato “l’azzoppatore di sinistra” di Renzi, avrei pensato che dipendessero da “senso di colpa” questi riferimenti positivi che l’articolo di Chicchi riserva al PD: «…un grande partito di popolo anche se dimagrito», cui si deve «quel minimo di sviluppo realizzato dal centrosinistra». Mi sarei insomma detto: “Vedi mo’ che Giuseppe, non avendo la perfidia di D’Alema, un po’ si dispiace nei confronti del partito che aveva contribuito a fondare ed in cui ha militato stato fino a ieri”.
Il suo invito al PD ad accettare le «cinque ragioni oggettive che spingono in quella direzione» (vale a dire in direzione… del treno grillino sotto cui buttarsi), potrebbe invece far nascere un sospetto di tipo opposto: “Vuoi vedere che quelli di LeU, non essendo riusciti ad affossare del tutto il PD con la scissione, adesso ci provano con i loro buoni consigli?.” Il che potrebbe forse essere giustificato solo nei confronti di alcuni di loro, nessuno dei quali ha però il “cursus honorum” di Giuseppe.
Lo conosco infatti abbastanza per sapere che lui, al contrario di altri oggi in Leu, anche quando stava (o credeva di stare) alla sinistra del PCI, non era fra quelli ossessionati dal dover ostentare un titolo di “compagno” a caratteri cubitali; né uno di quelli che nel tempo non hanno mai modificato i loro insulti, ma solo i destinatari che via via si sono avvicendati, da Berlinguer su su fino a Renzi; o che tengono ancor oggi la bandiera rossa issata in salotto e girano con un metaforico eskimo sottopelle.
Chicchi non è neppure uno stravagante arruffapopoli alla Emiliano, o un “Bertinotti incolto e ruspante” come il Landini che si appresta a passare la CGIL a Di Battista, completando il disegno che da tempo coltiva la Segretaria Camusso; anzi “il Segretario Susanna Camusso”, perché lei vuole essere chiamata così… in omaggio alle pari opportunità.
Per questo mi sconcerta quel suo ridurre a semplici intemperanze – solo «insulti reciproci» – l’abissale inconciliabilità fra il DNA della sinistra e quello del grillismo, sostenendo che «le distanze soggettive in politica contano poco. Ciò che conta sono le oggettive necessità»: una mera questione di galateo, insomma. Come a dire che, se serve, si può anche accettare di andare a cena con un commensale che non usi bene le posate e masticando emetta imbarazzanti rumori.
Naturalmente anche per Chicchi una delle motivazioni principali affinché il PD si rassegni ad andare “a mezzo servizio” di Di Maio, consisterebbe nel risparmiare agli Italiani «il rischio di un Governo Lega-5 Stelle». È la stesso assillo di Scalfari, che dopo essersi preso il padronale cazziatone di De Benedetti per aver dichiarato di preferire Berlusconi a Di Maio, sta ora correndo ai ripari; ed è anche la preoccupazione che coltivano nel PD Franceschini e Orlando, fermi per il momento al “né aderire né sabotare”, ma non si sa mai…
A me verrebbe spontanea un’obiezione: “democrazia vuole” che gli Italiani abbiano ciò che si sono cercati col loro voto. Ma in un eccesso di buonismo arriverei a fingere di capire una simile motivazione solo se fossero i grillini a chiedere ad alta voce: “Cari voi del PD, è andata com’è andata e non pensiamoci più. Ora abbiamo però bisogno che ci aiutiate a non dover andare a cercare quel buzzurro di Salvini, perché in quel senso lì ci basta e avanza Grillo”.
Invece no, per loro Pd e Lega pari sono: entrambi concorrono all’asta per il ruolo di alleato e… chi vince vince. É come se nella sua vita privata, un po’ di anni fa, il giovanissimo e già sgrammaticato Di Maio avesse messo il padre in condizione di confidare ai suoi camerati del MSI che Luigino l’aveva reso felice dicendogli: “Papà, è ora che metterei la testa a posto e che mi fidanzavo. Sarà dunque il caso che chiederei la mano sia a una bonona che fa la ballerina di lap dance, sia a una timorata catechista della parrocchia del Sacro Cuore. La prima delle due che mi direbbe di sì me la sposavo”.
Scusa Giuseppe se nel replicarti non sono riuscito ad rimanere serio come avrei dovuto. Ma cosa vuoi che ti dica, continuava a ronzarmi nelle orecchie un tormentone di mia mamma: “Di’ sò, mo dabon dabon?”.
Nando Piccari