HomeCronacaSe tornasse quell’austerity con fine trasmissioni ore 22.45


Se tornasse quell’austerity con fine trasmissioni ore 22.45


12 Marzo 2022 / Lia Celi

Sono freddolosa. Ma proprio tanto. Ho mani e piedi gelati tutto l’anno, tranne un paio di settimane fra luglio e agosto, le uniche in cui riesco a fare a meno del piumone, e l’acqua fredda la sopporto solo dentro un bicchiere, quando esce da una doccia è la peggiore delle torture.

Grazie ai misuratori di temperatura spuntati ovunque in epoca Covid, ho scoperto che la mia temperatura normale non arriva a 36°, tanto che ho cominciato a sospettare di avere qualche parentela con i rettiliani, considerato che oltre all’eterotermia ho pure gli occhi verdastri. In questo caso la teoria complottista sugli uomini-lucertola propalata da David Icke non regge, perché, come rettiliana, io dovrei far parte dei potenti della terra e nutrirmi di sangue umano anziché avere il cuore in gola pensando alla prossima bolletta del gas e farmi tisane bollenti allo zenzero per scaldarmi le mani stringendo la tazza. Le mie dita armeggerebbero con le leve del potere planetario, non girerebbero tremanti la manopola del termostato di casa per posizionarla sui 18° anziché sui consueti e confortevoli 20°.

No, non sono una rettiliana. Sono una semplice cittadina che si prepara a fronteggiare una stagione di durissima austerity, e la mia unica fortuna è di essere abbastanza vecchia da ricordarmene un’altra, quella del 1973, anno dello choc petrolifero dovuto alla guerra in Medio Oriente e alla chiusura del Canale di Suez.

Cioè, me la ricordo, quella austerity, ma non tanto bene da non avere bisogno di Wikipedia per rievocarne tutti gli effetti, molti dei quali, essendo bambina, mi erano sfuggiti. Per dire: ho ancora in mente le domeniche a piedi, ma siccome andavo a letto subito dopo Carosello non mi ero accorta che la fine delle trasmissioni della Rai-Tv (allora c’era solo quella) era stata anticipata alle 22.45, un orario che oggi è ancora “prima serata”.

Di conseguenza, l’orario del telegiornale del “canale nazionale” (attuale Raiuno) era passato dalle 20.30 alle 20, e tale è rimasto fino a oggi, unica traccia di quel durissimo giro di vite volto a ridurre i consumi e spingere gli italiani a spegnere tutto e andare a dormire presto. Anche perché non c’era molto gusto a uscire in città buie (l’illuminazione pubblica era ridotta del 40% e le insegne dei negozi venivano spente) dove di sera non c’era nulla da fare, visto che i cinema chiudevano alle 23 e bar e ristoranti a mezzanotte.

Tutti ci auguriamo che non si debba ritornare a quella frugalità. Passi per le domeniche a piedi, benefiche per la salute e la qualità dell’aria, ma per tutto il resto non siamo pronti né attrezzati. Il lockdown ci ha insegnato a restare in casa, ma una casa calda e con l’intrattenimento assicurato grazie a schermi accesi h24.

Eppure, dite la verità: se le televisioni chiudessero di nuovo i palinsesti alle 22.45 sarebbe poi così male? Le uniche vere vittime sarebbero gli ospiti fissi dei salotti televisivi: non potrebbero più blaterare fino a notte fonda ma a una certa dovrebbero tornarsene a casa da coniuge e figli, che ormai si sono dimenticati che faccia hanno. Con solo un’ora e mezza a disposizione, ogni talk show potrebbe ospitare al massimo due o tre tuttologi per volta, non le infornate di oggi.

Non sarebbe poi una gran perdita. Abbiamo già capito che l’aria fritta non può sostituire il gas, altrimenti con una puntata di DiMartedì alla settimana ogni famiglia potrebbe assicurarsi la piena autonomia energetica. Sfortunatamente, le chiacchiere stanno a zero. Speriamo che le temperature se ne allontanino alla svelta.

Lia Celi