Lì per lì anch’io, credo come tanti, mi sono divertito a confrontare queste due foto che testimoniano di un così diverso quantitativo di truculenta imbecillaggine fascista accorsa a Predappio in momenti diversi, a festeggiare il compleanno del suo truce pelatone: sopra il foltissimo gregge degli anni passati, sotto il disorientato gruppuscolo di sfigati ritrovatisi lo scorso 30 luglio.
Ma a ben pensarci c’è poco da essere allegri, perché una così marcata diminuzione di mondezza a Predappio non è frutto dell’insorgenza di imbarazzi e men che meno di ripensamenti. Corrisponde invece al disegno ben preciso di tanti neofascisti che, per non far danno alla Meloni ed ai camerati che sono con lei al governo, hanno capito di doversi accontentare di rimanere “fascisti dentro”, sforzandosi di non darlo più a vedere. Cosicché l’unico saluto romano che si concederanno sarà d’ora in poi quello ai familiari, uscendo di casa al mattino.
Tuttavia le cronache evidenziano come non siano pochi coloro che faticano rassegnarsi ad un simile cedimento finto-democratico, da loro considerato una vera e propria diserzione.
La ricorrenza della strage fascista del 2 agosto (io, come si dice, “l’ho scampata per miracolo”) ha così fornito a taluni di costoro l’occasione per ostentare la turpitudine di volersi mostrare fascisti a tutto tondo.
Intendiamoci, anche fra i fratelli e le sorelle d’Italia che si sforzano di apparire “moderati” c’è chi non si fa guardar dietro quando ci sia da mistificare sulla strage di Bologna. A cominciare dalla Meloni, che pur di non concordare con Mattarella, l’ha deprecata fermandosi alla parola “terrorismo” e guardandosi bene dall’aggiungervi l’aggettivo “neo-fascista”; in ciò imitata dal ministro dell’Interno nel suo discorso del 2 agosto a Bologna. Ma inaspettatamente non da Ignazio Benito La Russa, il solo a sgarrare, procurandosi con ciò non poche accuse di tradimento.
E che dire del “Bignamino” Galeazzo (nella foto con Meloni) che vuole a tutti i costi «una commissione di inchiesta» che vada a caccia di «attentati all’Italia da parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina», fra cui ovviamente quello alla stazione di Bologna?
Così come quel tal Mollicone che fa rima con “padre fascistone”, passato dall’invocata censura televisiva del cartone animato di Peppa Pig perché ha due mamme, al delirio secondo cui «l’origine dell’attentato andrebbe inquadrata nelle dinamiche politiche generate dal cosiddetto ‘Lodo Moro’».
In realtà – chi più e chi meno, chi lo dice apertamente e chi no – sono tanti i meloniani che la pensano così. Perché più d’uno di loro è cresciuto in seno o in contiguità a Ordine nuovo, Ordine Nero, Terza Posizione, Forza Nuova e simili merdai. Emblematica è a questo proposito l’affettuosa naturalezza con cui la neo presidente della Commissione Antimafia, Chiara Colosimo, si struscia in questa foto addosso a Luigi Ciavardini, terrorista del NAR.
Ma chi non ha avuto eguali è il cognato del Ciavardini, Marcello De Angelis. Prima terrorista nero, condannato dopo la latitanza a cinque anni e mezzo di galera per associazione sovversiva e banda armata; poi via via dirigente dell’Msi, direttore de Il Secolo d’Italia, senatore e deputato, funge oggi da portavoce del Presidente della Regione Lazio, oltre ad essere stabilmente nelle grazie della Meloni, già fidanzata di suo fratello.
Con ignobile sprezzo del suo pur assurdo ruolo istituzionale, De Angelis ha sguaiatamente polemizzato col Presidente della Repubblica per aver egli dichiarato che «la matrice neofascista della strage è stata accertata».
Ma quando mai? Questa la sua ignobile risposta a Mattarella: «So per certo che con la strage di Bologna non c’entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Non è un’opinione: io lo so con assoluta certezza. E in realtà lo sanno tutti: giornalisti, magistrati e cariche istituzionali». Suscitando in tal modo l’incazzato imbarazzo pure dei camerati sparsi fra Governo e Parlamento, oltre che dei loro alleati e del suo datore di lavoro in Regione.
Ma tutti costoro avrebbero dovuto prendere esempio dagli addetti alla custodia di due note discariche giornalistiche. Prima riporto testualmente ciò che hanno scritto, poi vi faccio indovinare i loro nomi.
Il primo: «Le sentenze non sono dogmi di Stato e ciascun privato cittadino può condividerle o contestarle. Perciò chiedere le dimissioni di De Angelis è un atto illiberale».
Il secondo: «Ammiro il coraggio di Marcello De Angelis, perché ha espresso la sua opinione sulla innocenza dei condannati per la strage di Bologna. Una dichiarazione discutibile se volete, io la condivido, altri no».
Lo so che voi state pensando a Feltri, Belpietro o Sallusti. Sbagliato! Si tratta nell’ordine di Marco Travaglio vedovo Grillo e di Piero Sansonetti, direttore de “L’Unità” che lui si sta sforzando di trasformare in una fogna.
Nando Piccari
Post scriptum
Santinato come Bartali: “Gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”
Ma possibile che “Santinato so tutto io” non abbia ancora trovato nel turismo riminese qualcosa non dico di positivo, ma quanto meno di passabile?
Con bimestrale periodicità sale sul mini-palco dotato di rotelle che si porta appresso a mo’ di valigia e, dopo essersi fatto un selfie a ricordo dell’evento, parte con gli anatemi contro tutto e contro tutti: «Visit Rimini che parla di sorpresa di Ferragosto»; il mutismo degli albergatori pecoroni che «a parlare sono tutti tranne loro»; la gran voglia degli amministratori riminesi di ciarlare di turismo, quando invece «non si è mai sentito l’Assessore alla attività produttive di Modena esternare dati sulle piastrelle vendute»; non gli va giù che si stia «sempre a parlare di questo riempimento camere, concetto che di per sé non significa niente e che potrebbe anzi avere un’accezione negativa», poiché ciò che conta sono «gli utili» e naturalmente «la redditività». Un po’ come dire che bisognerebbe copiare da Briatore, il quale se ne frega del riempimento camere, tanto anche una soltanto delle sue costa come tutte quelle di un albergo riminese.
Mercoledì non ci dev’essere però rimasto bene nel vedere che, in contemporanea con il resoconto della sua ultima concione, i giornali pubblicavano con gran risalto quanto emerge dallo studio di Sociometrica pubblicato il Sole 24 Ore, vale a dire che Rimini, con 1,5 miliardi di euro generati dal turismo, è il primo comune balneare d’Italia per valore aggiunto generato dall’industria dell’ospitalità, oltreché il. quinto a livello nazionale, dopo Roma, Milano, Venezia e Firenze.
È molto prevedibile che a questo punto il giornale di Confindustria subisca pure lui un solenne cazziatone da “Solone Santinato”.
(Buon Ferragosto, arrivederci a settembre)