Il 28 gennaio la Chiesa cattolica commemora San Tommaso d’Aquino (1226 – 7 marzo 1274). Celebrato anche dalle Chiese riformate (il 7 marzo quella anglicana) il frate domenicano esponente della Scolastica, definito Doctor Angelicus dai suoi contemporanei, proclamato dottore della Chiesa nel 1558, è stato uno dei più grandi teologi e filosofi di tutti i tempi. Secondo Giorgio Vasari, avrebbe tenuto lezione anche a Rimini nel convento domenicano di San Cataldo, dove Giotto avrebbe anche dipinto una sua immagine in un affresco.
“L’è dutòr de studi ad Burdoncia”, è dottore dello studio di Bordonchio, dove “dottore” è esattamente il laureato e “studio”, direttamente dal latino studium, l’università: si diceva per canzonare l’ignorante che pretendeva di sapere.
“Scapè da scola”, scappare da scuola, voleva dire aver concluso gli studi. Fino al 1877 ma anche oltre, per la stragrande maggioranza di chi ci andava, e non erano certo tutti, un ciclo assai breve: “Ho fat fin a la zgända”, ho terminato i miei studi alla seconda elementare, poichè l’obbligo scolastico si riduceva al primo biennio. Ma anche dopo le riforme che prolungarono l’istruzione obbligatoria a tre e poi cinque anni, soprattutto le femmine venivano mandare a scuola solo “a la zgända”, ‘chè poi dovevano lavorare a casa e nei campi.
“Mestre”, maestro, un tempo equivaleva anche a “mastro”, titolo che spettava a ogni artigiano. Anche “usato come vocativo, spesso in sostituzione del nome che si ignora” precisa Quandamatteo. Ma come ovunque, e’ mestre per eccellenza era quello della scuola e sempre avvolto in un alone di rispetto, fra timore e ammirazione. In altre parti della Romagna, majèstar, mèstar. “Insegner a e majièstar”, voler insegnare a chi sa già, come a nuotare ai pesci”.
Ma quando del mestre e della scola non se ne aveva proprio voglia, non restava che il pufi. Già, perché il nostro marinare la scuola per fare puffi non è naturalmente un’usanza moderna, come non ha niente a che fare con i simpatici personaggi blu dei fumetti e dei cartoni.
Ma nemmeno la parola è invenzione recente, appartenendo al dialetto riminese da tempo immemorabile.
Ce lo svela, tanto per cambiare, Gianni Quandammatteo nel suo Dizionario romagnolo (ragionato): “Fè pufi, marinare, salare la scuola. Ha il medesimo significato di fare un buco, un vuoto, un’assenza. In una bella giornata di primavera – quando la marina non era quella selva di cemento armato che è ora – fè pufi e correre al mare era divertente e salutare. Certe lezioni poi, nella quali si apprendeva che ‘l’Italia era finalmente rispettata da tutto il mondo’ e che ‘la divina provvidenza ci aveva gratificato con Benito Mussolini’, era meglio perderle”.
Ma perché pufi, da dove salta fuori questo termine? La spiegazione è nel medesimo libro alla voce PUFE’: “Fare buchi, contrarre debiti e non pagarli”. Quindi bisognava guardarsi dal pufadòr, “chi pianta debiti e scompare insalutato ospite. Quel se c’l’è un pufadòr! quello sì che è un imbroglione, Du che pasa e’ lasa e’ segn e l’è bon s’na ad pufè”, dove passa lascia il segno ed è buono solo a truffare“.
Alfredo Panzini annota poi che “far puf” significa andarsene senza pagare. Mentre Quondamatteo segnala “i nostri vicini francesi: faire pouf = quitter son logement sans payer. E ancora: faire puofs, piantar chiodi, fare debiti“. Inoltre, “anche lontano da noi, in Calabria, troviamo con l’identico significato puffu“.
E non solo: quel medesimo significato di “darla buca” hanno i puffi a Genova, i buffi a Roma, i puf nel Triveneto. La “Strenna triestina” del 1841 aggiunge che “per traslato chiamasi dunque ‘puf’ anche la stoccata che dà alla tua borsa lo spacciatore di baje, il quale promettendoti mare e monti ti lascia con le mani piene di mosche”.
La rivista giuliana riteneva il termine “onomatopeico” e “uno dei più espressivi termini del veneziano dialetto, e non una creazione straniera”, ma si sbagliava. Più plausibile che onomatopeica fosse semmai l’originaria radice indoeuropea bhla, “soffio”, che diede l’inglese antico pyffan, “soffiare con la bocca” (moderno to puff) e puffe (“piccola esplosione”); in tedesco puff vale per tonfo, scoppio, mentre puffen è “dare un colpo”, come in svedese puffa è colpire, spingere, e anche crepare.
Come e perché a Rimini e solo a Rimini il pufi sia finito per riguardare la scuola, resta un mistero.
(nell’immagine di apertura, San Tommaso d’Aquino nella formella della National Gallery di Londra, dal polittico smembrato di San Domenico dipinto da Carlo Crivelli per la chiesa domenicana di Ascoli Piceno – XV secolo)
28 gennaio 1923 – Il Comune di Rimini è sciolto dai fascisti