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Il 4 luglio 1849 cade la Repubblica Romana. Chi non vuole arrendersi ai Francesi arrivati per ripristinare il trono di Papa Pio IX, segue Giuseppe Garibaldi nell'epica marcia attraverso gli Appennini; sono diretti a Venezia, dove la risorta Repubblica di San Marco resiste ancora agli Austriaci. [caption id="attachment_50483" align="alignnone" width="737"] La fortezza di Marghera sotto il bombardamento austriaco[/caption] Anche Rimini è in subbuglio, a Roma ci erano andati in parecchi. E non tutti erano ritornati, come ricorda Carlo Tonini: «Non tardò quindi a venire l’annunzio della caduta di Roma in mano ai francesi, e della capitolazione d’Ancona cogli Austriaci; onorevoli ambendue pei difensori: e quindi ben presto si videro ritornare (da Roma ndr) i deputali Ferrari e Serpieri. Dei riminesi, che si trovarono in quei famosi combattenti, incontrarono la morte Remigio Buffoni, Gio: Battista Bonini, Camillo Macina, Daniele Raffaelli, Ercole Ugolini». Garibaldi sguscia fra gli Austriaci zigzagando fra i monti di Lazio, Umbria, Toscana e Marche. I reduci di Roma erano partiti in 4.700, poi Garibaldi li aveva divisi in colonne separate anche per confondere gli inseguitori. L'afflusso di altri volontari non colma però le numerose diserzioni, ormai le camicie rosse non solo più di 1.500. E c'è anche Anita, incinta. La popolazione li sostiene costantemente. Ma la morsa degli Austriaci si stringe: in

Cesare Clementini, nel suo Racconto Istorico della Città di Rimino (1617), inframezza spesso i fatti del passato con quelli di cui è stato testimone. E così, nel narrare di un terrificante 29 luglio del 1292, quando «fu così eccessivo caldo, ch'il vento il quale spirò, piuttosto fuoco, che aura calda rassembrava», riconosce subito il colpevole di tanta arsura: il garbino. E quindi non può fare a meno di annotare quanto aveva dovuto patire lui, assieme a tutti gli altri Riminesi, pochi anni prima, nel luglio del 1611. Clementini ricorda bene anche la data e perfino l'ora in cui giunse quell'ondata di calore: era il 6 luglio, di mercoledì, «alle quindici hore». La porta il «vento Garbino, in Romagna chiamato, tanto eccessivamente caldo, che più tosto rassomigliava a pura vampa di fuoco, che vento, e non permetteva di camminare, o pratticare strade della Città di Rimino, non che la campagna aperta; posciacchè levava il fiato alle persone». Come scampavano all'afa quando aria condizionata e refrigeratori non comparivano nemmeno nelle più sfrenate fantasie? «Era necessario per vivere, rinchiudersi nelle sotterranee stanze, con fenestre, e porte, molto ben ferrate». Del resto, dove andare? «Stavano le botteghe tutte chiuse, il camminar discalzo era impossibile, perché la terra ardeva, e

Alle 5.40 del 25 luglio 1922 muore Olga Bondi, anni ventuno. Era rimasta ferita il giorno prima da colpi di pistola sparati da un gruppo di fascisti. Olga Bondi (in alcuni documenti risulta "Biondi") era la compagna di Nello Rossi, un Ardito del Popolo da poco rimesso in libertà dopo un arresto. «Così fu disposto di far precedere all’applicazione penale, una formale diffida a tutte le dette sezioni [degli Arditi del Popolo], per l’immediato loro scioglimento», scrive il commissario di Pubblica Sicurezza di Rimini. Nonostante la diffida ricevuta, gli Arditi del Popolo riminesi – oltre un centinaio – proseguono la loro attività. Secondo i Carabinieri del Re, il Gruppo Anarchico Pietro Gori – ex Giovanile – andava considerato una vera e propria associazione per delinquere. La sera del 29 Settembre 1921 vari Arditi del Popolo dopo una riunione percorrono la città cantando l’Internazionale con il ritornello «abbasso i tre / regie guardie / carabinieri e re». Interviene la forza pubblica ed effettua 11 arresti: fra gli altri Nello Rossi, nato a Borghi nell’aprile 1898, falegname. Nell’interrogatorio respinge tutte le imputazioni, ma il 30 novembre è condannato a 3 mesi di carcere. La pena restante risulta condonata e gli imputati posti in libertà. Scrive Rossi dalla prigionia: «Carissimi Compagni

Il 25 luglio 1500 il pittore Lattanzio da Rimini firma a Venezia il contratto per quella sarà forse il suo capolavoro: un polittico destinato alla chiesa parrocchiale (oggi il duomo) di Piazza Brembana nella Bergamasca. L'opera, che è ancora al suo posto, sarà firmata "Latantio ariminens[is] 1503". Di Lattanzio non si conosce la data di nascita, ma si sa che era nipote di Bittino da Faenza, colui che dipinse le storie di San Giuliano per la chiesa del Borgo. Ed era figlio di un altro pittore, Ambrogio. Il primo documento che cita Lattanzio è del marzo 1492 e lo dice aiuto di Giovanni Bellini nel ciclo di teleri per la sala del Maggior consiglio in Palazzo ducale a Venezia. Nonostante questi dipinti siano andati perduti nell'incendio del 20 dicembre 1577, vennero a lungo ricordati come il vertice dell'opera di un artista divenuto un mito già in vita. [caption id="attachment_217228" align="aligncenter" width="988"] "Pietà" di Giovanni Bellini (1470 ca. Rimini, Museo della Città)[/caption] Il "Giambellino" (Zuane Belin in lingua veneta) in quel momento è un'autentica superstar. La sua bottega è fra le più reputate d'Italia quando il Bel Paese è il non plus ultra in Europa (e non solo: anche il Sultano si fa ritrarre da

Dal 535 al 553 l'Italia è devastata dalla Guerra Gotica. La maggior parte delle distruzioni e delle sofferenze che di solito sono genericamente attribuite alle "invasioni barbariche" avvennero invece durante questo interminabile conflitto. A rigore, gli invasori (o "liberatori": come sempre in questi casi, dipende dal punto di vista) non erano i "barbari" Ostrogoti, ma i "Romani", cioè i "bizantini" di Giustiniano, incoronato nel 527 a Costantinopoli e deciso a ripristinare l'unità dell'impero. Aveva già sistemato le cose con i Persiani e ripreso l'Africa ai Vandali; ora toccava all'Italia. Qui si era però instaurato il regno del goto Teodorico, in difficile equilibrio fra sostanziale autonomia e formale obbedienza all'impero. E soprattutto fra il dominio dei nuovi venuti e la popolazione "romana". [caption id="attachment_49957" align="aligncenter" width="670"] Moneta di Teodato[/caption] Alla morte di Teodorico (526) l'equilibrio si ruppe. Il trono fu ereditato dal nipote Atalarico sotto la reggenza della madre Amalasunta. Perito anche Atalarico in tenera età, Amalasunta fu costretta a condividere il trono con il cugino Teodato. Questi, con qualche ragione, temeva che Amalasunta avrebbe ceduto l'Italia a Giustiniano, col quale intratteneva ottimi rapporti. Nel 535 Teodato, messosi d'accordo con la frangia anti-romana dei Goti, organizzò un colpo di Stato con cui rovesciò ed esiliò la cugina sull'isola Martana del Lago

Una delle figure femminili più grandi del medio evo è quella di Marzia Ordelaffi, più conosciuta come Cia degli Ubaldini, moglie di Francesco II Ordelaffi il Grande signore di Forlì. Indomita, spietata fino alla ferocia, orgogliosissima del suo lignaggio e delle sue prerogative. [caption id="attachment_49781" align="aligncenter" width="1323"] Lo stemma degli Ordelaffi di Forlì[/caption] Cia era figlia di Vanni Ubaldini da Susinana e di Andrea Pagani, figlia a sua volta del celebre Maghinardo Pagani da Susinana. Gli Ubaldini erano un'antichissima famiglia forse di origine longobarda che possedeva diversi feudi lungo il crinale appenninico del Mugello fra Romagna e Toscana. All'apice della potenza con Federico I Barbarossa, furono sempre fieramente Ghibellini. Secondo la leggenda, fu l'imperatore a concedere il privilegio di inserire una testa di cervo nello stemma di famiglia, poichè uno degli ubaldinidi cui era ospite nel castello della Pila durante una battuta di caccia avrebbe afferrato l'animale per le corna così che Federico potesse trafiggerlo. [caption id="attachment_477870" align="alignleft" width="1146"] Stemma degli Ubaldini[/caption] Ma il personaggio più potente della famiglia fu il cardinale Ottaviano, che invece fu colui che nel 1248 ridusse tutta la Romagna all'obbedienza guelfa; tra il 1249 e il 1250 fu anche amministratore apostolico della diocesi di Rimini. Fu lui a ottenere la

Solo nel 1673, dopo decenni di disperate richieste da parte della popolazionee dei suoi rappresentanti locali, lo Stato della Chiesa si decise a costruire sei torri di avvistamento da Cattolica a Bellaria. Sono le  torri che dovevano servire a difendersi dai pirati (ma anche da molto altro) e che verranno chiamate “saracene”. In realtà in quegli anni il pericolo più costante non era venuto dai corsari musulmani, la cui base più prossima era a Dulcigno (in albanese Ulqin, in serbo-croato Ulcinj, oggi in Montenegro), bensì dai ben più vicini Uscocchi, cattolicissimi e con il covo a Segna (Senj), presso Fiume. [caption id="attachment_49771" align="alignnone" width="1310"] La fortezza di Segna, covo dei corsari Uscocchi[/caption] Gli Uscocchi erano croati, serbi e bosniaci fuggiti dal dominio ottomano, ma anche sbandati di ogni provenienza e risma, cui l’Impero asburgico aveva concesso protezione ai primi del ‘500: in teoria per fronteggiare i Turchi, in pratica per molestare Venezia e tutta la costa adriatica occidentale, Stato della Chiesa compreso. Abbordaggi di navigli, ma anche razzie sulla terraferma con rapimenti di gente da ridurre in schiavitù o per cui chiedere un riscatto, fra ‘500 e ‘600 erano tristi consuetudini anche sulle coste romagnole. Venezia dovette combattere contro gli Austriaci ben due “guerre degli Uscocchi”, ottenendo alla fine che

L'arianesimo, la dottrina cristiana che metteva in dubbio la natura divina di Gesù, ebbe fortuna in particolare sotto gli imperatori Costanzo II (figlio di Costantino I, 337-361) e Valente (364-378). Costanzo, al contrario dei fratelli Costante e Costantino II, era di tendenze ariane anche perché erano queste che stavano prevalendo nella capitale Costantinopoli. Costanzo convocò molti concili provinciali (o sinodi) deputati a definire il Credo cristiano: Sirmio (351), Arles (353), Milano (355), Sirmio II (357), Rimini e Seleucia (359) e infine Costantinopoli (360). Il più importante, per gli effetti che provocò in Occidente, fu quello di Sirmio II del 357, al quale parteciparono solamente vescovi d'oriente (in prevalenza ariani) e che mise al bando i termini quali ousìa ("sostanza") e consustanzialità ("identità di sostanza e di natura nelle tre persone della SS. Trinità"). I vescovi d'Occidente (più vicini alla chiesa di Roma e fedeli al Credo niceno, cioè la formula di fede fissata nel concilio di Nicea voluto da Costantino I "il grande" nel 326), manifestarono il loro dissenso: al che Papa Liberio e Ossio vescovo di Cordova furono imprigionati e costretti a sottoscrivere alle decisioni di Sirmio (l'attuale Sremska Mitrovica in Serbia, a cavallo fra l'impero d'Oriente e quello d'Occidente). Interviene a quel punto il Concilio di

Il 20 luglio 2015 Rimini saluta per l'ultima volta Sergio Ceccarelli, preside del Liceo Classico "Giulio Cesare" dal 1968 al 1989; era deceduto il 17 luglio, alla vigilia del suo novantaquattresimo compleanno, essendo nato a Rimini il 18 luglio 1921. Riportiamo stralci della cronaca di quel giorno e il ricordo del Preside Ceccarelli dall'articolo di Claudio Monti, pubblicato su Riminiduepuntozero. Rimini, 20 luglio 2015. Tanta gente questa mattina a dare l’ultimo saluto a Sergio Ceccarelli nella chiesa di Sant’Agostino. Il vicario generale, don Luigi Ricci, in apertura ha letto il messaggio del vescovo, mons. Lambiasi, che si è scusato per non poter essere presente e che ha ricordato il primo incontro con Ceccarelli: “Sono un vecchio amico di Alberto Marvelli”, gli disse presentandosi. “In quelle parole mi colpì quel verbo al tempo presente: sono, sono un amico”, ha commentato il vescovo, evidenziando la “confidenza con Alberto, che non solo il tempo non aveva potuto scolorire e neppure la morte cancellare, ma che la fede aveva fatto diventare un legame ancora più vivo e tenace”. L’omelia è stata tenuta da don Carlo Rusconi. In chiesa gli otto figli, i ventitrè nipoti e i pronipoti di Ceccarelli, e sono stati loro a delineare, al termine della

L'11 maggio 2019  è morto a 78 anni Gianni De Michelis, uomo politico socialista e più volte ministro. Un personaggio molto noto anche per la sua passione incontenibile per il ballo, che lo aveva portato a considerare i locali di Rimini e della riviera come altrettante sue seconde case. Il 19 luglio 1988, Laura Laurenzi scrive per La Repubblica un lungo servizio in titolato QUANTE BELLE DONNE PER DE MICHELIS 'GRAN RE DELLE NOTTI'.  Ne riportiamo ampi stralci: RIMINI. Onorevole, come si sente? Onorevole, ma non si vergogna almeno un po'? Mi vergogno come un ladro, sorride affannato e umido di sudore De Michelis. Lo assediano ragazze in microgonna e vari onorevoli socialisti. Anche un ministro, anche un sottosegretario. Eppure l'ha voluta lui questa notte esagerata, tutta questa gran sarabanda autocelebrativa, questo can can politico-mondano nella maxi discoteca più famosa d' Italia, il Bandiera Gialla, scelto per la presentazione ufficiale del suo libro. No, non è un trattato di politica, non è un saggio sull'annullamento del fiscal drag o sul debito pubblico l'opera che il vicepresidente del Consiglio ha dato alle stampe, bensì un manuale sulle discoteche italiane, una guida ragionata alle 250 balere più divertenti d' Italia. Titolo del volume: Dove andiamo a

Nei pressi del fiume Allia, il 18 luglio 390 a.C. (o 388, secondo altri) i Romani affrontarono i Galli Senoni e vennero disastrosamente sconfitti. Lo stesso giorno, alla disfatta sul campo succedette il sacco di Roma ormai indifesa. Un drammatico affronto che non si sarebbe più ripetuto se non oltre 800 anni dopo, nel 410 d.C. per mano dei Visigoti di Alarico. [caption id="attachment_49076" align="aligncenter" width="678"] Evariste Vital Luminais (1821-96): "I Galli in vista di Roma"[/caption] È questa una delle poche certezze che riguardano la pagina più nera di Roma, quando per l'unica volta era stata violata dallo straniero. Quella data, infatti, verrà ricordata nel calendario dell'Urbe come "giorno nefasto" (contrassegnato con una N) in cui non era lecito sacrificare, iniziare imprese di alcun tipo, trattare affari giudiziari, o alcuna azione che non fosse strettamente necessaria, né in pubblico né in privato. Quando fu istituito il «dies alliensis» - probabilmente già nel 389 a.C. - le stesse proibizioni vennero estese a tutti i giorni dell'anno che seguivano le calende, le idi o le none. Tanto la Clades Gallica, la "sconfitta gallica", si era incisa nella memoria dei Romani. E quasi a conferma di quei timori, il 18 luglio del 64 d.C. sarebbe scoppiato il grande incendio di Roma, quello "di Nerone". [caption id="attachment_49064"

«MCCCLXXII el die XVII de Luglio, foe di Sabato in ora de vespro, morì el gran Signore el magnifico Malatesta mis. Malatesta Ungaro, et stette infermo XVIII dì, et fu sepulto la domeniga mattina cum grandissimo onore». Così l'anonimo "cronista malatestiano". Galeotto de Malatestis, detto Malatesta Ungaro era nato a Rimini nel giugno 1327 dal matrimonio tra Malatesta detto l'Antico (o Guastafamiglia) e Costanza Ondedei, della nobile famiglia presente anche a Pesaro e Saludecio. Battezzato come Galeotto, nel 1347 divenne per tutti Malatesta Ungaro in onore del re d'Ungheria Luigi d'Angiò, che passando da Rimini lo ordinò cavaliere. [caption id="attachment_48886" align="aligncenter" width="678"] Luigi d'Angiò. re d'Ungheria[/caption] Le cronache dell'epoca - e non solo quelle "di regime" dettate dalla famiglia dei Malatesti, ma anche le narrazioni neutrali e perfino dei rivali - dànno dell'Ungaro una descrizione opposta a quella a tinte fosche spettata al padre, che si era ampiamente meritato il soprannome di Guastafamiglia. Il giovane Galeotto è invece prestante, leale, colto, virtuoso e valoroso. Insomma, un gentiluomo "cortese" che incarnava alla perfezione i migliori ideali del tardo medio evo. L'Ungaro trascorse la giovinezza nel mestiere delle armi sotto la guida del malfamato padre e dell'omonimo zio Galeotto, insieme con il fratello primogenito Pandolfo (II), futuro signore di Pesaro. Partecipò all'ampliamento della potenza malatestiana nella Marca;