HomeCulturaNapoleone razziatore d’arte anche in Romagna, ma la refurtiva è a Milano


Napoleone razziatore d’arte anche in Romagna, ma la refurtiva è a Milano


19 Dicembre 2021 / Paolo Zaghini

Pier Giorgio Pasini “Napoleone e le rapine d’arte in Romagna” –  Minerva.

Provate ad immaginare un funzionario che per oltre quindici anni ha potuto liberamente scegliere nel patrimonio artistico italiano le opere (quadri, sculture, libri, materiale naturalistico e scientifico raro, manufatti d’argento e d’oro) per allestire un nuovo, straordinario, museo e finanziare, con le opere giudicate di minor rilievo, i propri eserciti.

Impossibile direte, ed invece è successo fra il 1796 e il 1813 in Italia da parte del professor Gaspard Monge, coordinatore della Commission pour la recerche des objets des Sciences et de l’Art, alle strette dipendenze di Napoleone con lo scopo di allestire il Musée National di Parigi, aperto nel 1793 nel palazzo del Louvre. Negli anni migliaia di opere d’arte, “sequestrate e prelevate con la forza”, furono trasferite in Francia. Va detto: non solo dall’Italia, ma da tutti paesi conquistati dalle armate francesi.

Si trattò prevalentemente di una spoliazione compiuta ai danni del patrimonio delle chiese italiane.
“E’ una storia amara, che è stata differente da regione a regione, da città a città. Riassumendo e schematizzando possiamo dire che in Romagna ha avuto due fasi. La prima è quella dei tempi della ‘scorreria’ napoleonica e poi della Repubblica Cisalpina (1796-1799): la Romagna non venne ispezionata dalla commissione francese per la ricerca delle opere d’arte da inviare a Parigi certamente perché considerata povera di opere d’arte significative e importanti, ma subì la perdita di una quantità incalcolabile di manufatti d’argento e d’oro e la dispersione incontrollata sul mercato di molte opere d’arte sacra e di oggetti liturgici, e in generale di materiale chiesastico. La seconda fase è quella del Regno italico (1802-1813): ancora con requisizioni e vendite e con il prelievo per Milano (non per Parigi) di poco più di un centinaio di buoni dipinti scelti da Andrea Appiani e dal duo Boccolari-Santi nel monte di opere ecclesiastiche nazionalizzate, cioè statalizzate”.

L’idea molto diffusa che una grande quantità di capolavori romagnoli sia stata portata a Parigi da Napoleone è sbagliata. “Sostanzialmente in Romagna Napoleone ha compiuto una ingentissima e mai abbastanza deprecata razzia non di dipinti, ma di oggetti di metallo prezioso; oltre a questi ha portato via in tutto solo due libri a stampa (due incunaboli, della Biblioteca Malatestiana di Cesena”.

Un vero salasso comunque per il patrimonio artistico romagnolo, inviato a Milano per costituire la Pinacoteca di Brera. La Romagna veniva privata di più di cento dipinti di “buona mano” e di altri quadri destinati alla vendita (“ad approfittare delle occasioni offerte fu l’aristocrazia, quelli che insieme alla ricca borghesia aveva acquistato i beni terrieri e gli immobili ‘nazionalizzati’ della Chiesa”).

Al Louvre non finirono opere provenienti dalla Romagna. I quadri prelevati dalle città romagnole si fermarono a Brera. Assieme ad altre migliaia di opere prelevate in tutta Italia (nel 1808 nel suo magazzino erano accatastati ben 1839 dipinti). Oggi a Brera sono esposte solo una decina di dipinti provenienti dalla Romagna; per rintracciare le altre opere occorre esplorare, oltre al magazzino di Brera, decine di chiese sparse in tutta la Lombardia. Nel 1811, per ridurre la quantità veramente eccessiva di opere accatastate nei magazzini, fu deciso di depositare centinaia di queste nelle chiese di Milano e della Lombardia che si trovavano sguarnite di dipinti.

Brera possiede a tutt’oggi una quarantina di dipinti provenienti dalla Romagna: 12 da Forlì, 7 da Ravenna, 5 da Imola, 4 da Cotignola, 3 da Cesena, 2 da Faenza e da Rimini e uno ciascuno da Castel Bolognese, Lugo e Longiano.

Dopo il Congresso di Vienna nel 1815, nel giro di pochi mesi, più di cinquemila opere d’arte lasciarono la Francia per ritornare negli stati di appartenenza. Roma e l’Emilia riebbero una parte del loro patrimonio artistico. Ma non la Romagna perché le sue opere d’arte non erano finite in Francia, ma a Milano. E Milano era ritornata all’Austria che era parte della coalizione antinapoleonica vincente e “non accettava volentieri di spogliarsi di ciò che il destino e la vittoria le avevano consegnato”. Nel 1816 comunque alcuni dipinti furono riconsegnati alle città romagnole: a Rimini fu restituito il “San Giacomo in gloria” di Simone Cantarini.

Nel Dipartimento del Rubicone erano stati allestiti cinque depositi per le opere d’arte prelevate dalle chiese (a Ravenna, a Faenza, a Forlì, a Cesena e a Rimini). Questi ben presto furono colmi di una grande quantità di dipinti: quelli giudicati cattivi o poco importanti venivano subito messi in vendita; quelli giudicati buoni rimanevano a disposizione per l’arredamento e la decorazione degli uffici pubblici; i migliori venivano trasferiti a Milano.

Da Rimini partirono per Milano, secondo la lista compilata da Appiani, il quadro di Cantarini sopra citato, il “San Girolamo” del Guercino, “L’Epifania” di Giorgio Vasari, un quadro del Guercino preso a Mondaino, una “Madonna” di Raffaello (supposto) e un quadro di Pietro da Cortona presi a Sant’Agata Feltria. Ma Rimini non fu “collaborativa” con le autorità francesi: nonostante fossero ripetutamente richiesti non partirono per Milano il “San Girolamo” del Guercino e diversi quadri del Vasari.

Napoleone non fu l’unico che approfittò del patrimonio ecclesiastico: mezzo secolo dopo il Regno d’Italia sabaudo con la legge del 7 luglio 1866 soppresse gli ordini e le corporazioni religiose e con quella del 15 agosto 1867 liquidò l’”asse ecclesiastico” divenendo proprietario dei loro beni. Ma questa è un’altra storia, come dice Pasini. A cui io aggiungerei anche la storia delle razzie compiute in Italia dai nazisti fra il 1943 e il 1945.

Le opere d’arte italiane costituiscono ancor oggi, spesso, le sezioni più importanti dei maggiori musei del mondo.

Paolo Zaghini