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Quel Montefeltro violento e di frontiera


24 Dicembre 2018 / Paolo Zaghini

Lorenzo Valenti: “Criminalità e giustizia nel Montefeltro romagnolo. Una regione appenninica nel periodo post-unitario” – Il Ponte Vecchio.

Una immersione negli anni post-unitari (il trentennio 1860-1890) in una zona periferica del Paese, il Montefeltro, rurale e violento. E’ questo il quadro storico che l’avv. Lorenzo Valenti, Sindaco di Pennabilli dal 2011 al 2016, ci propone con questo volume.

Frutto soprattutto di uno spoglio di circa 1.200 fascicoli penali degli anni 1860-1875 relativi ai reati commessi nei Mandamenti delle Preture di San Leo, Pennabilli e Sant’Agata Feltria e depositati presso l’Archivio di Stato di Urbino. Un territorio che comprende 12 comuni e che nel 1871 contava complessivamente circa 26.000 abitanti.

Quello che emerge è “una criminalità periferica, rurale e di frontiera”.
“I territori dei quali ci occupiamo sono segnalati come quelli in cui vi sono le peggiori condizioni di vita: la popolazione si trova in uno stato di inferiorità per la povertà dei mezzi di sussistenza, per la scarsa alimentazione, per l’analfabetismo, per un generale stato di arretratezza”.

Nel quindicennio indagato sulle carte delle tre Preture si contano 32 casi di omicidi e 30 tentati omicidi. Valenti indaga inoltre i casi di violenza privata (soprattutto all’interno delle famiglie povere), di infanticidio, di violenze sessuali, oltre ai casi di reati “economici” (contravvenzioni alla legge forestale, contro il vagabondaggio, contro la caccia abusiva e il furto di legna, il furto campestre).

“La società dell’epoca come ogni altra società rurale, aveva al centro del suo modello antropologico-economico il possesso della terra (…). Per i nostri rilievi criminologici il diritto di proprietà si situa al punto focale di un conflitto permanente che vede su vari fronti agire componenti diverse della società: da un lato il colono in conflitto con il proprietario, dall’altro l’attrito fra proprietà finitime; infine la difesa contro tutti della propria ‘roba’”.

Ma ci sono anche le rapine per strada, le truffe, le falsificazioni di monete. E poi la renitenza alla leva, introdotta il 6 novembre 1860. La ferma era di cinque anni. Nei Comuni del Montefeltro nei primi anni della sua introduzione il rifiuto era altissimo: nel 1861 oltre il 33% dei giovani richiamati, per scendere poi pian piano negli anni successivi. E l’evasione della tassa sul macinato, introdotta l’1 gennaio 1869. Essa “colpiva un bene di primissima necessità, penalizzava fortemente le popolazioni rurali”.

E poi i reati contro il buon costume. “La presenza soffocante di una moralità religiosa, tutta pervasa da pudori, moralismi, costrizioni non viene assolutamente messa in discussione dal nuovo potere ‘liberale’, che anzi sembrò preoccupato costantemente del livello generale di moralità e del rispetto della religione, che era comunque, nonostante tutto, religione di Stato”.

Infine i reati politici. “Il 1860 segna un fondamentale punto di arrivo della lotta politica risorgimentale. Da quella data cambia il terreno dello scontro politico: si passa alla costruzione dello Stato unitario. In pochi anni le egemoni correnti moderate e di destra portarono quasi a compimento il processo risorgimentale attraverso la residua lotta contro il potere ecclesiastico, l’impostazione di una politica economica ispirata al liberalismo ed infine attraverso la creazione di un meccanismo istituzionale centralizzato con caratteri di solidità ed intransigenza”.

Anche nel Montefeltro ci fu una opposizione clericale (a Sant’Agata Feltria un benestante conservatore, in osteria, a proposito di Vittorio Emanuele, si lasciò scappare: “Che Re, che Re, Re dei miei coglioni” che gli costò un anno di carcere), una opposizione democratica fatta da repubblicani e garibaldini con forti nuclei a Talamello, S. Agata, San Leo, Pennabilli . “Per il loro estremismo sono guardati con sospetto dalle autorità ma gli interventi repressivi tutto sommato sono rari e difficilmente si concludono con una condanna”.

Nella parte finale del libro Valenti tratta il caso di Martino Manzi detto Martignon. E’ la figura chiave del più grave dei fatti di sangue avvenuti nel Montefeltro dopo l’Unità, l’assassinio di tre Carabinieri il 15 settembre 1872. In un verbale di un interrogatorio di sé dice: “Sono Manzi Martino, nato e domiciliato alla Perticara, di anni 28, ammogliato con figli, sorvegliante alla miniera sulfurea di Perticara, so leggere e scrivere, sono stato militare come volontario nel 1859 nella Brigata Bologna, ed ora sono sergente foriere della Guardia Nazionale di Perticara, non sono mai stato in carcere, e una sol volta per rissa processato, ma però fui dichiarato innocente”.

Attorno a questa vicenda ruotano molti fili: “la vita di miniera, i movimenti politici di opposizione, un mondo oltre modo violento di cui oggi s’è perso il ricordo”. Dal 1876 al 1886 “si contano 39 procedimenti per omicidio e tentato omicidio nel mandamento della Pretura di Sant’Agata Feltria, di cui almeno un terzo riconducibili all’ambiente minerario”.

“La miniera era un luogo attorno al quale viene compiuta una serie innumerevole di reati, per lo più risse, ferimenti ed omicidi”.

“A Perticara e Sant’Agata – i paesi dello zolfo – l’individuo si perde nel gruppo e anche il crimine si fa di gruppo, l’assassinio s’innesta su politica e ideologia con una freddezza sconosciuta al passionale delitto contadino. E anche la giustizia diventa politica, ideologica, di classe”.

Alla fine Manzi fu eliminato dai “suoi compagni di partito uccidendolo a tradimento la notte del 18 novembre [1872] i quali non sopportavano più le sue minacciose richieste di denaro per emigrare negli Stati d’Uniti d’America”. Il processo per l’uccisione dei tre Carabinieri vide comunque la condanna a pesanti pene detentive per dieci imputati.

“Con la svolta crispina, accentuata la repressione sociale, Perticara fu subito nel mirino delle nuove autorità; qui, infatti, molto più che altrove era ampio il divario fra paese legale e paese reale. Non si potevano più tollerare zone franche nella nazione, tanto più se una di esse comprendeva un centro minerario di primaria importanza come Perticara (…). Si voleva e si doveva chiudere definitivamente la partita con l’irrequieta Perticara. E queste furono le ragioni per cui nel 1888 si celebrò il gran processo degli ‘assassini’ di Perticara”. Si volle un processo sommario ad un’intera comunità.

Un maxi-processo che tenne impegnata la Corte d’Assise d’Urbino dal 15 maggio al 7 giugno 1888. Sfilarono 159 testimoni. Cinque gli imputati eccellenti, tutti per imputazioni gravissime di più omicidi avvenuti fra il 1869 e il 1881, non collegati fra loro. “Durante il lungo dibattimento il quadro della comunità di Perticara che emerge dal susseguirsi delle testimonianze è di quelli a forti tinte; la politica sanguinaria e violenta delle cosiddette sette democratiche, i rapporti torbidi dei minatori con le donne, le famiglie promiscue, le passioni violente, l’abuso del vino e le cene spropositate, le armi e il sangue, gli omicidi e le vendette, tutto contribuì a disegnare un quadro ambientale peggiore di ogni altro”.

Quattro furono le condanne a morte ed una ai lavori forzati a vita. In appello tutte le condanne furono trasformate in ergastolo. “Il processo fu un maglio su ogni velleità di ulteriore contrapposizione fra la comunità mineraria e le autorità statali e stabilì un ordine duraturo”.

La conclusione del volume di Valenti è lapidaria: “chi loda il tempo antico non sa cosa loda”.

Paolo Zaghini