Se vuoi mettere il turbo al romagnolo, digli che un’impresa è impossibile
20 Maggio 2023 / Lia Celi
Sono stata graziata due volte nella vita, da calamità che mi hanno lasciato ai loro margini, in quasi sicurezza: una è stata il terremoto del Friuli del 1976 – abitavo in quella regione ma in pianura, lontano dalla zona rossa, e ricordo solo gran paura, crepe nei muri e qualche notte in tenda -, l’altra è stata l’apocalisse d’acqua di questa settimana. Mi è andata bene, nemmeno la cantina allagata. Ma non è l’unico motivo per cui questo disastro mi ha riportato alla memoria quello della mia infanzia.
Come in Friuli quasi mezzo secolo fa, le popolazioni colpite stanno reagendo con ammirevole forza d’animo e i più fortunati si mobilitano per dare una mano, coordinandosi con i soccorritori o semplicemente presentandosi con stivaloni di gomma e pala in mano e chiedendo cosa c’è da fare.
C’è in più una verve speciale che mancava ai rocciosi friulani. I video e le foto che hanno invaso il web mostrano volontari e superstiti che cantano in coro «Romagna mia» o allestiscono punti di ristoro per chi sgobba nella melma, studenti che dopo la scuola vanno ad aiutare insieme ai loro professori e non vogliono essere chiamati «angeli del fango», semmai «burdèl d’e paciùg». Niente lacrime, niente piagnistei, i romagnoli intervistati dagli inviati dei tg a caccia di pathos riferiscono di avere perso casa e beni con una flemma e una compostezza sbalorditive anche per degli scandinavi. Perfino il solitamente cattivissimo e fegatoso Twitter gronda di ammirazione per la tempra dei cesenati e dei faentini, per la resilienza dei nostri bagnìni che già il giorno dopo la terribile mareggiata stavano ripulendo la spiaggia. Sembra che tutti siano consapevoli che anche nella catastrofe c’è un’identità da difendere, uno stile, una buona fama che non vanno smentiti. Noblesse, anzi, romagnolesse oblige.
Sono profondamente grata ai romagnoli per avermi fatto sentire ora più che mai quale privilegio è far parte della nostra gente – e possiamo farne parte anche quando non siamo nati qui, come la soprano russa Radmila Novozheeva che a Cesena ha cantato un’aria di Mozart in galosce e giubbotto schizzato (accompagnata da un’altrettanto valente pianista), strappando un’ovazione a un pubblico altrettanto infangato che forse Il flauto magico in teatro non l’ha mai sentito e non lo sentirà mai. Se l’Italia ci voleva bene prima, ora ce ne vuole anche di più, e se bastasse il calore dell’affetto ad asciugare i campi inzuppati, forse molte colture potrebbero salvarsi.
Non è così, purtroppo; e le emozioni dell’opinione pubblica sono più mutevoli e meno affidabili del meteo. Arriverà anche troppo presto il momento in cui i romagnoli si ritroveranno soli con i loro guai: case inagibili, colline che franano, attività cancellate, vita precaria e dipendente da aiuti esterni – e niente li scoccia quanto dover dipendere da chicchessia.
Ma il peggio è che i cambiamenti climatici infittiranno alluvioni come quella che ha investito la Romagna. Il «tempo di ritorno», il periodo che intercorre fra due eventi meteorologici superiori a una data intensità, si è drammaticamente accorciato, come dimostra il caso di Faenza, finita sott’acqua per la seconda volta in due settimane. Bisogna lavorare per rimettere tutto in piedi, con il dubbio che gli sforzi possano venire cancellati da altre 24 ore di pioggia ininterrotta che costringerà a ricominciare da capo. E non fra dieci o vent’anni, ma fra una settimana, un mese. Per una terra che ha fatto della sua agricoltura un’eccellenza è una condanna. Ci vorrà tutta la grinta e la genialità del nostro popolo per affrontare questo scenario, e se i romagnoli hanno già fatto un miracolo trasformando in pochi decenni la loro terra misera in una delle più prospere d’Europa, stavolta di miracoli dovranno farne parecchi.
Ci riusciranno? Sì, basta dirgli che nessuno potrebbe farcela. Se vuoi mettere il turbo ai romagnoli, di’ loro che un’impresa è impossibile.
Lia Celi