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1 giugno 1449 – Muore Polissena Sforza, seconda moglie di Sigismondo: assassinata da lui?


31 Maggio 2022 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Il primo di giugno del 1449 muore Polissena Sforza, seconda moglie di Sigismondo Pandolfo Malatesta.

Polissena era nata a Fermo nel 1428, figlia del (non ancora) duca di Milano Francesco Sforza e della sua amante Giovanna d’Acquapendente, detta La Colombina, che fu legata allo Sforza per 17 anni dandogli cinque figli. Il duca volle quel nome in memoria della sua prima moglie, Polissena Ruffo principessa di Rossano, morta nel 1420 forse avvelenata da uno zio insieme ad una figlioletta di un anno, Antonia Polissena.

Francesco Sforza, Duca di Milano

Francesco Sforza, Duca di Milano

Il 29 aprile 1442 la quattordicenne Polissena sposa a Rimini Sigismondo, 25 anni. In quel momento fra Malatesta e Sforza l’alleanza è di ferro; questo matrimonio ne è il suggello. La prima moglie di Sigismondo, Ginevra d’Este, era morta nel 1440 senza avergli dato figli. Le nozze “fonno bellissime, famose et sontuose cum molto ordine et provedimento”: si finisce di festeggiare solo il 2 maggio. Subito dopo Sigismondo parte con 1600 cavalieri e 400 fanti per andare ad aiutare il neo suocero nella Marca. La dote di Polissena è Mondavio, capoluogo di Vicariato con giurisdizione su ventiquattro castelli, che subito Sigismondo fa abbellire e fortificare.

La rocca e il castello di Mondavio

Entro la fine dell’anno nasce il sospirato figlio maschio, Galeotto. Ma muore dopo pochi mesi. Due anni dopo arriva Giovanna, che dodicenne andrà in sposa a Giulio Cesare Da Varano, signore di Camerino; vivrà fino al 1511, dopo aver visto il marito e tre figli sterminati da Cesare Borgia, il Duca Valentino.

Polissena ha poche occasioni di frequentare il marito, sempre impegnato a guerreggiare. E non solo. A Fano c’è Vannetta de’ Toschi: proprio in quel 1442 ha dato a Sigismondo un figlio maschio che invece sopravviverà e a lungo, Roberto.

E dal 1445 a Rimini c’è Isotta degli Atti, della quale il signore di Rimini si innamora perdutamente.  Non bastasse, i rapporti fra padre e marito si sono guastati.

Alessandro Sforza, signore di Pesaro

Alessandro Sforza, signore di Pesaro

Una rottura, col senno di poi, inevitabile. Francesco diventerà duca di Milano solo dal 1450, primo della sua dinastia, ma gli Sforza discendono dagli Attendoli, Conti di Cotignola, e hanno vasti interessi nella loro Romagna e nelle Marche.

Per giunta, l’ultimo dei Malatesta di Pesaro, Galeazzo per parecchi buoni motivi ribattezzato “l’inetto”, non contento di aver maldestramente tentato di spodestare da Rimini i fratelli Galeotto Roberto e Sigismondo appena succeduti alla zio Carlo, ridottosi poi sul lastrico, nel 1445 preferisce vendere la sua città ad Alessandro Sforza, fratello minore di Francesco, piuttosto che cederla ai cugini riminesi, che sognavano da sempre di riunire i loro domini in continuità territoriale.

Presunto ritratto di Polissena Sforza dipinto da Giovanni di Ser Giovanni, detto lo Scheggia

Presunto ritratto di Polissena Sforza dipinto da Giovanni di Ser Giovanni, detto lo Scheggia

Sforza e Malatesta sono ormai rivali quando Polissena muore nell’abbazia di Scolca. Viene sepolta con gran pompa in San Francesco, che sta per diventare il Tempio Malatestiano.

Ma qui nasce il giallo. Come muore Polissena? Di peste, come riportano le cronache contemporanee? O uccisa da Sigismondo, secondo la terribile accusa lanciata anche da Papa Pio II e poi dallo stesso Francesco Sforza?

Nonostante la leggenda nera di Sigismondo comprenda anche i due uxoricidi nei confronti delle mogli avute prima di Isotta, al vaglio degli storici queste accuse non trovano il minimo fondamento.

Come nel caso di Ginevra e gli Este, al momento della morte di Polissena nemmeno suo padre Francesco Sforza, pur già in rotta con Sigismondo, lo accusa in qualche modo. Inizierà a farlo solo molti anni dopo in due lettere del 1461 e 1462. E solo dopo che il Papa, che per primo ha lanciato quelle accuse, ha fatto processare e condannare  il Malatesta.

Papa Pio II

Papa Pio II

Accuse, quelle di Pio II, zeppe di approssimazioni davvero sconcertanti per essere pronunciate da un Pontefice.

Scrive infatti Papa Piccolomini: «Di tre mogli, d’una si liberò col ripudio, dell’altra col veleno e della terza col laccio». Senonché, come tutti sapevano e sanno, nessuna delle tre mogli fu ripudiata, mentre almeno di una Sigismondo non volle liberarsi mai, e fu Isotta.

Contraddittori anche molti dettagli del presunto delitto. Chi dice laccio e chi dice veleno. A Roma poi il laccio  diventa un asciugamano con il quale sarebbe stato Sigismondo in persona a soffocare la moglie. Ma a Milano asseriscono invece che il Malatesta non ha agito di persona, bensì ha incaricato un sicario: e difficilmente gli sforzeschi potevano dire diversamente, dal momento che in quei giorni Sigismondo non è a Rimini, ma in Lombardia a combattere proprio contro Francesco Sforza!

E chi sarebbe stato questo sicario? Un certo dottor Antonio, che avrebbe curato Polissena con sostanze venefiche. Costui risulta morto di peste nel novembre di quello stesso anno come molti altri a Rimini sempre dello stesso male, a iniziare dal  vescovo della città.

Insomma, se c’è una certezza in questa storia è proprio che in quel periodo a Rimini infuriava un’epidemia di peste.

E poi, il movente. Secondo gli accusatori, Sigismondo avrebbe eliminato Polissena per essere libero di sposare Isotta. Ma allora non si capisce perché il vedovo abbia aspettato quasi sette anni, fino al 1456, per realizzare il suo sogno d’amore.

Un ultimo elemento, raccolto anche da Oreste Cavallari nel suo “Sigismondo Malatesta” (E.L.S.A., Rimini, 1978), è la nota di Nicodemo Tranchedini, diplomatico, segretario e ambasciatore del Duca di Milano. A lui Francesco affida il compito di scrivere la genealogia ufficiale della famiglia Sforza. E cosa scrive in un documento di questa portata, ai posteri destinata, l’uomo di fiducia di Francesco alla voce Polissena‘? “Hec Pulisena data est numpti Magnifico domino Sigismundo Pandulfo, que postmodum mortua est poeste Arimini“. 

Non occorre traduzione. Per fabbricare le leggende nere (di gran successo, fino a essere citate come incontrovertibili da Oscar Wilde in “Il ritratto di Dorian Gray” ma perfino da taluni storici contemporanei) servono i delitti efferati, non dei comuni lutti famigliari.

E poco utile alle trame letterarie è la breve e non certo felice vita di una donna cresciuta fra parenti dediti a intrighi feroci e delitti abominevoli. Forse non amata dal marito, e chissà che lei non desiderasse qualcun altro. E certamente lasciata sola e tradita, per morire ad appena 21 anni. “Forse prima di malinconia che della stessa peste”, conclude il Cavallari.

(Nell’immagine d’apertura, presunto ritratto di Polissena Sforza dipinto da Ambrogio De Predis)