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28 ottobre 1537 – Niente forca per il ladro, “solo” taglio di naso, orecchie e frustate


27 Ottobre 2022 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Nel 1537, secondo Carlo Tonini, con la cacciata definitiva dei Malatesta,  a Rimini  regnava la calma dopo decenni di conflitti feroci e anche spopolamento. Certo restavano da fare le solite «riparazioni alla Marecchia e al porto» e «la necessità di guardarsi dai tentativi di Sigismondo Malatesta ed altri non lievi negozi d’interno reggimento, che tennero in questo tempo occupatissimi i padri nostri». Però «sembra che una tranquilla pace si godesse in queste contrade».

Per esempio, sarebbe stato raggiunto un invidiabile grado di sicurezza: «delitti non si commettevano». E se pure capitavano, le pene erano tali che meravigliavano perfino il Tonini, vissuto in un Ottocento sempre meno più draconiano, ma secondo i nostri canoni ancora feroce verso i rei.

Accadde dunque a Rimini che un mercante veneto fosse derubato da un giovane napoletano di 30 ducati. Su come punire il ladro dovette sorgere un dibattito, se «il governatore della città ne scrisse al Presidente di Romagna, richiedendolo di consiglio sul da fare; e il Presidente risposegli, che essendo il primo furto, che da colui commettevasi, si doveva altrimenti impiccare ma soltanto fustigarlo (batterlo) pei luoghi soliti pubblicamente, tagliargli il naso e le orecchie e bandirlo da tutta la provincia: e se mai vi tornasse e fosse preso, allora lo si impiccasse per la gola, e in modo da farlo morire (“se impicchi per la gola ita quod moriatur”) Tale ordine fu dato da Faenza il 28 ottobre 1537». E dovette essere considerato anche un parere indulgente, dato che si riconosceva al colpevole l’attenuante di essere incensurato.

«Veggasi pertanto – commenta il bibliotecario della Gambalunghiana – qual sorta di castigo si infliggesse nella Romagna in pieno secolo XVI pel furto di trenta ducati»:  una cifra corrispondente (molto, ma molto approssimativamente) ai nostri 1.200 euro.

Il parere risulta comunque in linea con le idee del tempo. Già dal XV secolo la pena di morte per reati comuni era inflitta con molta più frequenza che in precedenza e con modalità sempre più brutali. Andando di pari pari passo con la ferocia mai vista chi si scatena con le prime guerre di religione fra cattolici e protestanti in Germania e nei Paesi Bassi, come si riverbera nelle opere di Bosch e Bruegel il Vecchio, l’Europa sembra farsi sempre più sanguinaria e senza pietà.

E si abbandona la concezione romana del diritto penale, dove appartiene alla dimensione privata, nella quale ad avere la precedenza era il risarcimento del danno. Nel Medioevo i diritti della vendetta privata, che ancora ai tempi di Dante nessuno metteva in discussione, potevano essere soddisfatti pagando: nella faida germanica il versamento di sangue, anche a generazioni di distanza dall’offesa, era ritenuto onorevole quanto una composizione pecuniaria (guidrigildo). Ma andando verso Rinascimento si entra gradualmente nell’ambito pubblico, dove la pena deve essere sempre più esemplare. E anche quando quella capitale veniva commutata con varie forme di tortura e mutilazione (taglio delle mani, delle dita, delle orecchie, della lingua, del naso, accecamento, castrazione, fustigazione, marchio a fuoco: tormenti comunque inflitti in pubblico anche come “antipasto” dell’esecuzione capitale) si trattava non di “mitezza”, ma solo di una sentenza di morte dilazionata e in definitiva ancora più crudele. 

Che vita onesta avrebbe mai potuto condurre, infatti, una persona segnata in tal modo dal suo crimine? Non aveva nessuna alternativa al commetterne di nuovi in attesa di una fine inevitabilmente miserrima, se non sul patibolo per recidiva. Soluzione evidentemente dannosa anche per la società, che volendo escludere e marchiare a vista chi non ne aveva rispettato le regole, si ritrovava costantemente minacciata da masse di derelitti senza speranze di riscatto.

(Nell’immagine in apertura: “Il trionfo della Morte” di Pieter Bruegel il Vecchio, 1562 circa)