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4 marzo 1258 – Rimini è guelfa ma si becca la scomunica come quando era ghibellina


4 Marzo 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

«Per la qual cosa il Pontefice delegò a giudicarne il Vescovo di Modena; e questi dopo avere inutilmente minacciato d’interdetto il Comune a mezzo del Vescovo di Cesena, finì col proferire sentenza, che pubblicata fu per Almerico Canonico di Sarsina, il quale a’ 4 marzo 1258 nella residenza dell’Eletto Sarsinate riferì di avere scomunicato il Popolo riminese e interdetta la città a nome del Modenese e d’ordine apostolico». Così Luigi Tonini nella sua “Storia di Rimini (vol.3)” del 1862.

Ma cos’era successo? E cosa comportavano davvero per una città la scomunica e l’interdetto? I due provvedimenti in realtà si distinguono solo per essere l’uno diretto ad un’intera comunità, l’altro a un singolo individuo; metterli entrambi per iscritto è una precauzione giuridica per non lasciare spiragli interpretativi di alcun tipo, ma il risultato è il medesimo.

In una città scomunicata sono sospese tutte le manifestazioni pubbliche di culto e la comunità colpita non può disporre dei sacramenti, che la Chiesa ritira. Quindi, non solo niente celebrazione di messe, ma è impossibile tenere tutti i riti religiosi. Non ci si può sposare, né battezzare i nuovi nati, né seppellire i morti dopo un funerale, che pure non si può officiare. E sono nulli tutti i giuramenti fatti in nome di Dio. Insomma, in un mondo dove tutti ma proprio tutti sono credenti, perfino i più acerrimi nemici del Papa, significa la paralisi totale e l’isolamento.

1248: l’improvvisa sortita della cavalleria dalle mura di Parma travolge l’accampamento dell’imperatore Federico II

Solo che Rimini in quel momento non era affatto fra i nemici del Papa. Fin dal 1248 la città, ghibellina da sempre, era passata dalla parte dei Guelfi un attimo dopo la sconfitta dell’imperatore Federico II di Svevia sotto le mura di Parma.

Protagonisti del “ribaltone”, come si direbbe oggi, Malatesta da Verucchio e Taddeo da Montefeltro, conte di Pietrarubbia. Ghibellini anche loro, avevano avuto la fortuna (o l’accortezza?) di non arrivare in tempo per unirsi alle truppe imperiali. Appresa per la strada la notizia della disfatta avvenuta il 18 febbraio 1248, ritennero che era venuto il momento di riconsiderare le loro idee. E così il 16 aprile dello stesso anno, insieme con Ramberto di Giovanni Malatesta e i conti di Carpegna, organizzarono il rientro a Rimini della fazione guelfa dei Gambacerri, sconfitta per l’ennesima volta appena otto anni prima, per cacciare invece i partigiani imperiali Omodei e Parcitadi.

Malatesta e Taddeo si alternarono da allora nelle podesterie, quindi non potevano esserci dubbi sulla fede guelfa del Comune. Ma allora perché scomunicarlo?

Il castello di Pietrarubbia

Perché quel Comune, da quando aveva preso ad organizzarsi un secolo o forse due prima, non aveva fatto che erodere sistematicamente i beni della Chiesa. Uno a uno, diritti, poteri e i castelli del contado che appartenevano all’Arcivescovo di Ravenna, ai Vescovi riminese e feretrano, alle grandi abbazie come San Gaudenzo, San Giuliano o San Gregorio al Conca (quando non li avevano direttamente fondati) erano andati a formare il territorio che la città di Rimini considerava suo in tutto e per tutto. Sì, c’era stato anche qualche signorotto locale che aveva dovuto sottomettersi o, se più potente, prendere la cittadinanza. Ma la stragrande maggioranza dei beni apparteneva ad enti ecclesiastici, inevitabile che fossero loro a soffrire di più le pretese comunali.

L’ambone del duomo di Sarsina con i simboli dei quattro evangelisti

Questo era stato lo sviluppo di tutti i Comuni, senza distinzione fra quelli guelfi e quelli ghibellini. In quello stesso secolo per esempio Rimini ghibellina aveva praticamente annesso tutti i castelli del promontorio di Gabicce: Fiorenzuola di Focara, Granarola, Casteldimezzo (Castrum Medii, detto anche Gajiole, Gazole, Chiliolis) e la stessa Ligabizzo, che erano della Chiesa di Ravenna. Ma la Rimini guelfa non si sognava neppure di restituirli, anzi di lì a poco avrebbe esortato gli abitanti di quei castelli a costruire tutti assieme quello nuovo di Cattolica per proteggere meglio il proprio confine dalle eventuali minacce di Pesaro.

Stemma della famiglia Boschetti di Modena

Ma la Chiesa, carte alla mano, periodicamente tentava di porre rimedio agli “espropri” subiti. E quindi «A’ 6 aprile Giovanni da Sorbano Cappellano dell’Eletto anzidetto, ebbe lettere dal Vescovo di Modena (che era Alberto Boschetti, divenuto Beato), nelle quali dichiaravasi scomunicato il Podestà e il Comune di Rimini, e la città interdetta per danni recati alla Chiesa di Ravenna». 

Il duomo di Modena e la torre della Ghirlandina

Ma se qualcuno a Roma si illudeva sul serio che i Guelfi si sarebbero comportati diversamente dai Ghibellini, sbagliava di grosso. Per riprendersi il maltolto sarebbe occorsa la forza militare e, ammesso che ci fosse stata, i tempi non erano certamente maturi per usarla contro i propri stessi sostenitori. Infatti della terribile scomunica, che non era la prima né sarà l’ultima, dopo qualche tempo non se ne sa più nulla. Restano solo gli atti di nomina dell’avvocato che il podestà Giacomo Rangoni inviò a perorare la causa riminese presso il Beato Vescovo di Modena: un tal Bondi, che dovette certamente fare un buon lavoro.

(nell’immagine in apertura, il Palazzo e la Torre dell’Arengo di Rimini – foto di Diego Baglieri)