In Italia, Paese di poeti, santi, navigatori, si è aggiunto una nuova categoria: Vignaiuoli senza terra, espertissimi di vino. Dal Tavernello all’Amarone sanno tutto e di più. Sono onniscenti: va la, va la, te lo spiego io come si fa il vino …, ho visto una trasmissione alla televisione …, ho letto su wikipedia …, mio nonno aveva un poderino a Spadarolo …, i lieviti devono essere autoctoni e non stranieri, la botrite è un po’ puttana … . I solfiti e via dicendo. Se poi li becchi su Feisbuk, sei finito. Leoni da tastiera, spesso con profili fasulli, nessuna scuola, nessun lavoro, si vergognano anche della propria faccia, confondono l’alcol metilico con quello etilico e il metanolo non lo ricordano più. Volevo essere Socratico, ma non riesco. Attilio Arlotti era mio amico non soltanto di bevute; di carri pieni di uva ne ho visti passare a Morciano, Rimini, Pian della Pieve fino alla rurale Cesena quando portavamo in cantina più di tremila quintali di uva. Ricordo bene i Piemontesi che scendevano fino a Coriano per condire il Nebbiolo, il Barolo o il Barbaresco. Ma loro hanno avuto Camillo Benso conte di Cavour, ministro dell’Agricoltura. Io continuo ad incantarmi davanti agli enologi, alla conoscenza, e alla Scienza. Il vino si fa con amore, con il cuore, con la professionalità, ma è sempre necessaria la terra, la vigna e l’Uomo di Nietzshe.
Rurali sempre,
Enrico Santini