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E Bersani per ritrovare il popolo incontra Le Pen


10 Ottobre 2018 / Nando Piccari

Quando domenica scorsa un amico mi ha detto che Rete 4 stava annunciando l’imminente faccia a faccia di Bersani con Marine Le Pen, ho pensato che avesse le traveggole. Perché è vero che Bersani, per far dispetto a Renzi, non si era sottratto all’abbraccio con Forza Nuova e Casa Pound durante la campagna elettorale del referendum 2016; e che solo pochi giorni prima il Secolo d’Italia osannava questa sua uscita da supporter grillo-legaiolo: «Bisogna piantarla di dire che questo governo è populista. Questo governo è popolare! È la sinistra che deve decidere se il popolo le piace o le fa paura». Lasciandosi poi andare ad una affermazione – «…io non ho mai usato la parola populista» – che decine di sue dichiarazioni, di cui resta traccia su Intenet, confermano essere semplicemente una balla.

Ma ero tuttavia convinto che “il processo regressivo” di cui è vittima Bersani non potesse arrivare a condurlo fino alla Le Pen. «Ti sarai sbagliato», ho perciò detto al mio amico «Dovrebbe essersi bevuto il cervello per lasciarsi andare ad una così degradante “marchetta” a favore dell’esponente più becera del neofascismo europeo. E proprio nel giorno in cui costei viene in Italia a riverire il pagliaccesco energumeno che ha ormai trasformato il Ministero dell’Interno nel “Bar Viminale”; dove passa le giornate tromboneggiando a mo’ di caricatura di Mussolini e sbandierando sui social tutta la mondezza verbale di cui gli fanno omaggio i suoi sostenitori, buon ultimo quel bel gingino di Riace arrestato con l’accusa di prestanome della ‘ndrangheta e condannato per trasferimento fraudolento di valori».

Non volermene, caro Pierluigi che in questa foto sorridi soddisfatto insieme a Madame Le Pen: i gerarchi legaioli e i caporiani casaleggesi saranno come tu dici “popolari”, ma a me fanno comunque un po’ paura. Alla quale si assomma una certa dose di schifo per l’oscena esaltazione con cui una così larga parte di “popolo che non mi piace” osanna simili figuri, plaudendo al “brigantaggio governativo” che sta affossando l’economia, mostrando indifferenza per i tanti disgraziati che affogano in mare, inneggiando al primato della “razza italiana”, ambendo a starsene in panciolle a godersi il reddito di cittadinanza.

Mi scoccia e mi fa anche un po’ senso doverlo ammettere, ma tutto ciò genera una rancorosità d’animo devastante per me stesso.

Alla mia veneranda età e con cinquant’anni di vita politica alle spalle, di cui trentanove passati ininterrottamente in Consigli Comunali o Provinciali, potevo fino a ieri vantarmi, pur fra tanti errori commessi, di non avere mai ceduto alla tentazione di considerare l’avversario politico come un nemico personale. Arrivando perfino ad auto-compiacermi del fatto che le inevitabili contrapposizioni, spesso anche aspre, non avessero in molti casi impedito l’insorgere di reciproca stima con chi stava dall’altra parte della barricata.

Perché era questo il modo non “di fare”, ma “di vivere” la politica, come abbiamo ricordato insieme, alcune sere fa, io e Nicola Sanese, il più “altolocato” dei miei avversari democristiani degli anni ’80 che ho avuto il piacere di rincontrare casualmente. Nell’occasione non ci siamo fatti mancare pure un pizzico di comprensibile nostalgia per quel tempo in cui ci si combatteva sì duramente, ma sul “ring” del comune rispetto della democrazia, le cui regole le avevano scritte assieme, qualche decennio prima, i nostri rispettivi “padri costituenti”. Oggi, invece, non è più così: né fuori né dentro di me.

Il più benevolo dei sentimenti che mi suscitano i legaiol-grillini è la commiserazione per Tria che, chiamato a fare il “maggiordomo alle finanze” di casa Salvini-Di Maio, a forza di lasciare sulla poltrona pezzi di dignità s’è ridotto ad essere quella metaforica figura conosciuta in Romagna come «la serva ad Zoffoli».

La ridicolaggine del loro sgangherato balbettio da ultimi della classe, unito a certe pose da gita fuori porta, riescono a malapena a stemperare i violenti impulsi di avversione che mi assalgono all’apparire televisivo del “mistificante ridanciano” Di Maio, del “tontoneggiante Tontinelli, del “ministro guardie e ladri” Bonafede con la sua aria da gufo sparnazzato, del succhiatore seriale di caramelle in diretta TV, il Signor “Nessuno Conte”.

Ma questo è ancora niente al confronto dell’aggressività che mi pervade allorché appare Salvini in tutta la tracotante rozzezza della sua figura fisica e la violenza del suo eloquio, o magari in sorridente compagnia del fascistone Orban e di altri caporioni sovranisti del “Gruppo di Visegrad”, altrimenti detto “Gruppo di Visdecaz”.

Pur se “ragioni coronariche” m’impongono di cambiare quasi subito canale, ce n’è quanto basta per provocarmi l’irrefrenabile insorgenza di un rosario di coloriti improperi, intercalati da terribili malauguri. Di cui più tardi tenterò di pentirmi… con scarso risultato.

Ecco perché io che non sono avvocato, ma ho la presunzione di ritenermi un “buon orecchiante” di faccende legali, sto in questi giorni setacciando il codice penale alla ricerca di un appiglio giuridico che mi consenta di far incriminare Salvini del reato di “procurato abbruttimento altrui”: ovviamente il mio.

Nando Piccari