La piada ha meno sapore, il Sangiovese è meno rosso, lo squacquerone è acido, il nostro mare è in lutto. Piangi Romagna, Raoul se n’è andato, il maledetto Covid ci ha portato via anche lui, la nostra bandiera, rappresentativo come il Passatore, il gallo e la caveja dei anèl.
E sempre per colpa del virus non potremo nemmeno salutarlo come meriterebbe, né onorarlo con funerali degni del re del liscio – e questa è forse la cosa che ora fa più male. E non solo a noi romagnoli. Grazie a lui la nostra musica è diventata patrimonio comune. Per chi oggi ha più di cinquant’anni, i figli del boom e anni limitrofi, Casadei era la colonna sonora dell’estate, quello che per i giovani d’oggi sono reggaeton, lambada e salsa.
Ciao mare, Simpatia e La mazurka di periferia erano indissolubilmente legate alle vacanze sulla nostra riviera, il lusso annuale alla portata di tutti, e non c’è bambino degli anni Settanta che non abbia piroettato al ritmo di tre quarti sulla pista di una festa di piazza o di una sagra.
Avevo un’amichetta che vestiva la sua Barbie come “la Rita di Casadei”, predecessora di Luana Babini e voce dei super classici di Raoul, e questo dice molto su come il suo liscio fosse seguito e popolare anche fra noi piccoli. Casadei ci piaceva perché faceva musica sempre allegra, un po’ come le canzoni dello Zecchino d’Oro, senza incomprensibili paturnie amorose da adulti.
Nei suoi testi c’era sempre un po’ di “nostalgia del passato”, inevitabile per il nipote dell’autore di Romagna mia, ma era una nostalgia ballerina, che non si prendeva sul serio e che si lasciava subito travolgere ritmo incalzante e turbinoso del valzer o della mazurka e da quei fiati travolgenti, il sax, la tromba e il clarinetto chiacchierone e ridanciano tipico del liscio romagnolo.
In quel decennio italiano così cupo e angoscioso, Casadei ci ricordava che c’era sempre un posto fatato dove tutto era danze, sorrisi, amicizia e vino rosso, dove l’aia e la spiaggia diventavano un’unica pista da ballo e la notte era stelle e grilli, non tensione e sirene della polizia. E quel posto era la Romagna.
Una Romagna di favola, dolce e solatia come quella cantata (ma non ballata) da Pascoli, che grazie a Raoul Casadei è diventata il paese del cuore di tutti gli italiani, una terra dove tutti abbiamo una bella e un casolare che ci aspettano, anche se siamo siciliani o piemontesi e nelle nostre vene non scorre una sola goccia di sangue romagnolo.
In un’Italia che ha sempre rinnegato le sue radici contadine, Casadei è stato il primo artista, e forse l’unico, che le ha non solo rivendicate con orgoglio, ma esaltate, facendone qualcosa di festoso, luminoso, vincente. Non un retroterra umile e imbarazzante di cui vergognarsi, ma un passato semplice e felice, più vicino alla natura, da riscoprire per ritrovare serenità e buonumore.
Il liscio era la vita di campagna, ma depurata da tutto il dolore, la fatica e la miseria, un mondo povero ma spensierato, dove “l’amore è una capanna, la vanga ed il tridente”, la fidanzata è la “morosa” e all’osteria si giocano la briscola e il tressette: l’antidoto perfetto per l’angoscia degli anni di piombo, e forse anche per quella di oggi. Speriamo di poter ringraziare Raoul di tutto quel che ha dato alla Romagna e all’Italia, quando l’emergenza verrà superata: con un grande ballo di piazza al ritmo della sua musica, sotto una notte stellata in cui la serenata sarà soltanto per lui.
Lia Celi