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11 settembre 1584 – Pirati a Rimini bastonati a morte da una “rustica femmina”


11 Settembre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Nel 1571, anno fatale della battaglia di Lepanto, anche Rimini è in piena apprensione per la minaccia ottomana. Già a Cipro uomini d’arme riminesi sono caduti nelle mani dei Turchi mentre combattevano al servizio di Venezia. «In quell’occasione – scrive Carlo Tonini – restò ferito e abbruciato dai fuochi artifiziati il conte Ercole Malatesta, e fu condotto schiavo alla torre del Mar Nero.  E poco appresso fu preso anche Giacomo Malatesta marchese di Roncofreddo».

Ercole era figlio di Sigismondo II, ultimo signore di Rimini. Combatté valorosamente a Famagosta, durante la conquista turca di Cipro; evaso dalla prigionia (in realtà non fu mai ridotto in schiavitù) fu ripreso e punito duramente e poi riscattato da Venezia, riconoscendogli i suoi meriti, mentre il Papa, di cui era suddito, aveva rifiutato di pagare. Giacomo era invece un Malatesta dei ramo dei Conti di Sogliano. Resterà nella famigerata prigione ottomana per ben 11 mesi e sarà liberato solo dietro l’intercessione della Francia, alleata del sultano Selim II. Nonostante i severi rimbrotti dei Dogi per essersi fatto catturare tentando un’impresa troppo rischiosa in Albania, Giacomo concluderà una brillantissima carriera militare come capitano supremo di tutto l’esercito di terra della Repubblica Veneta.

La battaglia di Lepanto

La battaglia di Lepanto

Ma il pericolo era molto più vicino e i Riminesi tempestavano Roma e Venezia di suppliche descrivendo una situazione da incubo: «Tanto essere lo spavento dei nostri marinai che essi non ardivano di metter piede in mare; le fuste turchesche osare di avvicinarsi fin dentro il porto; e intanto nella ròcca non trovarsi polvere con cui far segno ai poveri naviganti perché potessero schivare si gran pericolo, onde il fiore della marineria di questa città insieme con molti mercanti andava cadendo nelle mani dei barbari pirati. E scrivendo al Prelato benefattore della città gli raccontavano il caso di una Marcelliana che inseguita dai Turchi si era salvata nel nostro porto quasi per miracolo».

Marciliana_di_Perasto

Diversi tipi di Marciliana (o Marsiliana), nave da carico veneziana detta anche “Pandora di Venezia”

Marciliana o pandora di Venezia-33

Marciliana_o_pandora

Il 9 febbraio del 1573,  due anni dopo la grande vittoria della Lega Santa sulla flotta turca, il mare continuava a pullulare di nemici, tant’è che «scoppiò tale una procella con vento e con neve da greco che cacciò a terra sopra il fiume Savio una fusta turchesca, la quale fu presa con tutti gli uomini».

E ancora nel 1574 «una fusta turchesca, che essendo cacciata da una galera del Clarissimo Daniel Molino, venne a dare in terra a questo lido».

6 giugno 1574 – Galea veneta cattura fusta turca e sbarca i corsari a Rimini

Dopo il 1583«brutto anno per la fame e pei disordini della stagione per grandini e per turbini veementissimi, e scosse notevoli di terremoto», l’anno dopo «a’ 10 di settembre fu presa una fusta, che pel vento, che accompagnò le anzidetto scosse del terremoto, diede in terra a Bellaria, e i Turchi, che erano in essa, furono condotti prigioni a Ravenna». Ma per nulla intimiditi, i pirati «a’ 15 poi dello stesso mese smontarono d’un’altra fusta alla foce della Conca circa dieci Turchi e fecero alquanti prigionieri nella casa di Diomede Vittorio. Incuorati da questo successo, gli stessi pirati vollero due giorni dopo discendere presso la Colonnella, ma il rumore delle campane e la città li spaurirono».

Ma ci sono anche i pirati di casa nostra, coi quali bisogna andar d’accordo. Pochi giorni dopo, «il 21 settembre, approdò al nostro porto lo stesso masnadiere Alfonso Piccolomini sopra una fregata, con alquante barche e con circa duecento uomini. Era forse cacciato dal Duca d’Urbino. Gli si volevano fare dimostrazioni d’onore: ma non le volle. Egli alloggiò in casa Lunardelli e i suoi per le taverne». Alfonso Piccolomini Todeschini, duca di Montemarciano e figlio di Isabella Orsini di Niccolò, conte di Pitigliano, era un personaggio da romanzo che meriterebbe una trattazione a parte. Appare a Rimini in vesti marinare, ma le sua imprese belliche, anzi in gran maggioranza banditesche, si svolgevano sulla terra ferma. Tuttavia quel poco che riuscì a combinare navigando fu sufficiente per procuragli una taglia da 10 mila ducati posta sulla sua testa da Venezia, che si andò ad aggiungere alle molte altre già decretate dal papa e dal Granduca di Toscana. Nonostante il terrore che incuteva a intere città – come si vede nella servile accoglienza accordatagli a Rimini – e le potenti protezioni della Spagna e di molta nobilà senese refrattaria al dominio mediceo, finirà impiccato alla torre del Bargello di Firenze il 16 marzo 1591.

La fortezza sull'isola di Santa Maura

La fortezza sull’isola di Santa MauraNon c’era pace: «Movendo quei barbari pirati da  S. Maura (Leucade, l’isola greca presso Cefalonia, strappata ai Veneziani nel 1503, riconquistata nel 1684 e tenuta dalla Serenissima fino alla sua fine nel 1797 salvo un’altra parentesi turca nel 1715-16) e da Castro Nuovo (Ercegnovi  o Castelnuovo di Cattaro presa dagli Ottomani al Duca di San Sava nel 1482 e conqustata da Venezia nel 1687, oggi Herceg Novi in Montenegro pur essendo collegta storicamente alla regione dell’Erzegovina unita alla Bosnia) scorrevano intorno la marina e menavano prede. Nè i Veneziani uscivano ad arrestarli, non essendo ciò loro permesso dalle condizioni dell’ultima pace».

Non sempre le razzie vanno però a buon fine. Come quando, sempre durante quell’agitato settembre del 1584, il giorno 11 ma non sappiamo di preciso dove, «avvenne un caso ben singolare».

Uno dei pirati «sbarcati in questa spiaggia, allontanatosi dagli altri e datosi a menar prede con maggior temerità e licenza, diede nelle mani degli agricoltori, e segnatamente di una rustica femmina, che più ch’altri coraggiosa e feroce con verghe e con bastoni lo percosse a morte. Del che venuto a cognizione uno de’ nostri soldati presidiarii (i quali, o perché pochi di numero o non assuefatti a somiglianti lotte, aveano presa la fuga) tolto al Turco morto il pugnale gli tagliò un orecchio e lo portò intorno come a testimonianza di una sua grande impresa».

Oltre ai pirati musulmani, come si è visto, c’erano i cristianissimi Uscocchi, protetti dagli Austriaci contro Venezia, che nonostante due guerre all’inizio del ‘600 e lo smantellamento del loro covo di Segna, cent’anni dopo continuavano ancora a tormentare la nostra costa. A volte arrivano nel porto di Rimini senza apparenti intenzioni ostili e anche loro bisogna accogliere.

22 luglio 1617 – I corsari Uscocchi visitano Rimini

Ad ogni buon conto, lo stesso anno «a’ 12 di settembre il Consiglio elesse quattro Caporioni, loro affidando custodia e la difesa di tutta la città. Essi furono il cav. Cesare Clementini (l’erudito che scrisse la prima storia di Rimini) alla porta di S. Andrea, il cav. Nicolò Paci alla porta di S. Giuliano, il capitano Alessandro Ippoliti e Lodovico Battaglini alla porta di S. Bartolo. Quindi furono guernite d’uomini, levati così dalla città come dalle castella, le mura e le porte anzidette. Il 19 venne in Rimini lo stesso legato card. Rivarola: visitò le trincee fatte alla marina e le volle rinforzate di maggior numero d’artiglierie».

Ormai la tensione è tale che «ad ogni poco di rumore, che si levasse, si dava all’armi. Ma la maggior confusione, il maggior tumulto fu la sera del venerdì 23 settembre. Un’improvvisa voce colla rapidità del fulmine propagossi per tutta la città: gran numero di vele essersi veduto nel mare: una poderosa armata appressarsi: essere imminente un assalto».

Ma tutto quello si riesce ad avvistare, durante una notte per tutti insonne, sono due barche presso la spiaggia, «e avendole richieste di dare il nome, queste non risposero e presero il largo. Coloro scaricarono contro di esse gli archibugi, e quei colpi sentitisi dalle guardie delle mura fecero che anche queste si mettessero all’armi. Per la qual cosa tutte le campane cominciarono a suonare a stormo, o tosto la povera gente prese a tor su i figli, come dice il Pedroni, e a fuggirsene chi qua e chi là con gran confusione e pavento. Il somigliante occorse la sera del di seguente nella Cattolica, e nelle altre terre vicine per la paura di certe barche d’Uscocchi. E sebbene poi nè Turchi nè Uscocchi in veruna parte si mostrassero, pure si prosegui’ fino al 28 dello stesso mese nell’opera delle trincee alla marina e delle munizioni attorno alla città».

Vascello assalito da fuste di pirati

Vascello assalito da fuste di pirati

Ma perfino nel 1680 di fronte alle nostre coste si svolgono ancora autentiche battaglie navali, come quella tra quattro fuste turche dulcignotte (di Dulcigno, Ulcinj in Montenegro) e due galee venete avvenuta «dirimpetto alla Cattolica, e da molti veduto dai siti alti per mezzo di cannocchiali».

Uno spettacolo drammatico: «Riusci da prima ai Veneziani di affondare una fusta nemica e disfarne quasi del tutto un’altra. Onde i Turchi, vedendo il caso disperato, afferrati i legni nemici con uncini di ferro, vi saltarono dentro e menarono orribile strage dei veneti. Questi erano più di 120, e soli cinque se ne salvarono, i quali, gittatisi in acqua e aspettato che i Turchi partissero, montarono sopra una delle galeotte, e legatala all’altra scorsero il mare alla sorte, e verso le ore 20 entrarono come meglio poterono nel porto di Rimini. Il popolo accorse in gran numero a vederle: ma pochi furono coloro, che potessero fermarsi a considerare lo scempio orribile e atroce, che lor si parava dinanzi: cadaveri d’uomini quali in pezzi, quali orrendamente deformati: sulla coperta laghetti di sangue: cordami e vele in bricioli o abbruciati: onde fu determinato di togliere ben presto dagli occhi quel truce spettacolo; e quei cadaveri sopra carri furono trasportati alla Colonnella e sepolti nel luogo dove poi fu fatto il cortilone dei Frati. Le Galeotte furono indi mandate a prendere dalla Repubblica».