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I cinque colori di Giovanardi per amare la pittura di Rimini


21 Giugno 2020 / Paolo Zaghini

Alessandro Giovanardi: “I colori di Rimini. Una pinacoteca immaginaria” – Interno4.

Rimini fra Trecento e Seicento, dalla fine del Medioevo al Rinascimento e alla Controriforma. Una città che in quei secoli ha visto crescere il potere dei Malatesta, poi la loro sconfitta e l’affermazione del potere papalino. Secoli che hanno visto la presenza in Città dei più grandi artisti italiani: dai pittori della scuola del Trecento Riminese a Giotto, da Piero della Francesca a Guido Cagnacci, da Giovanni Bellini a Giovan Francesco Barbieri, detto il Guercino.

Alessandro Giovanardi, classe 1972, storico e critico d’arte, responsabile delle attività culturali della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, direttore della rivista del Rotary “Ariminum”, con questo volume ci porta a conoscere, secondo un itinerario totalmente personale, alcune delle più importanti opere pittoriche riminesi, soprattutto espressione di arte sacra.

“Non è un saggio critico, non è una guida per il forestiere alle bellezze della Città e neppure un elenco o un inventario di capolavori superstiti. Qui non si troverà una rassegna esaustiva delle pitture di Rimini e neppure di quelle più celebri. Il suo percorso rammenta piuttosto un girovagare senza meta ed è, infatti, la memoria di molte camminate disimpegnate tra le chiese e i musei cittadini alla ricerca di colori perfetti”.

E il fil rouge del libro si dipana proprio attraverso cinque colori, che segnano le opere di periodi diversi: l’oro e la Scuola del Trecento, il bianco e Agostino di Duccio e Piero della Francesca, il nero e Giovanni Bellini e Benedetto Coda, il rosso e Mastelletta e Cagnacci, l’azzurro e Cantarini e Guercino.

“In effetti, è nell’arte del colore e nelle sue immemorabili radici artigiane che si conserva ciò che di più prezioso, autentico e incantevole può offrire Rimini a chi la abita e a chi la visita. La salvezza dalla chiacchiera e dal rumore può compiersi tracciando un cerchio magico, allestendo una pinacoteca immaginaria, in cui custodire i propri tesori di bellezza e intelligenza. All’origine della pittura vi sono, prima di tutto, il mito e il rito; e vi è un immaginario condiviso con l’alchimia: i colori sono l’anima distillata sulla superficie dipinta, la trasfigurazione della materia resa trasparente allo spirito. Per scoprire questo volto celato è necessario, però, varcare la soglia di chiese, musei e palazzi e attendere che i colori si rivelino e si raccontino, uno ad uno, quadro per quadro”.

Le indicazioni di Giovanardi non sono molte, solo 24 opere pittoriche, descritte, raccontate e “lette” secondo vari testi e autori. “La mia predilezione per le opere eseguite tra la venuta di Giotto e l’età della Controriforma e del barocco, dove si tenta di rappresentare l’irrappresentabile, di rendere visibile l’invisibile, di arrischiarsi coi colori sulla descrizione simbolica di altri mondi”.

Voglio giocare anch’io con Giovanardi, e fra questi scegliere le tre opere che più mi hanno colpito nel vederle: l’affresco di Piero della Francesca (1416-1492) “Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a San Sigismondo, re dei Burgundi” del 1451 al Tempio Malatestiano; il quadro tempera e olio su tavola di Giovanni Bellini (1433-1516) “Pietà (Cristo morto sorretto da quattro Angeli)” realizzato fra il 1468 e il 1475, conservato nei Musei Comunali di Rimini; l’olio su tela di Guido Cagnacci (1601-1663) “La conversione di San Matteo”, 1620-25 ca., conservato al Museo della Città.

Il bianco. L’affresco di Piero della Francesca. “La pittura è molto deperita, ma conserva l’idea di una struttura impeccabile, d’impassibile perfezione. Mai un dipinto pierfrancescano si è dimostrato così prepotentemente intessuto di elementi sacri e dinastici, religiosi e politici, tanto che l’intento celebrativo del Signore di Rimini si fonde inseparabilmente a quello devozionale”.

Il nero. “Il nero compatto che Giovanni Bellini distende per inscenare il ‘Compianto sul Cristo morto’ è forse il più incantevole dipinto della nostra città. In quella tenebra, a volo d’uccello si sono posati quattro fanciulli alati che rammentano i bambini e gli adolescenti del Tempio Malatestiano: sono loro i celebranti dell’ufficio funebre”.

Il rosso. “Due uomini vestiti di rosso s’incontrano nel buio della stanza, s’avvicinano e si riconoscono: i sontuosi velluti di Matteo s’inchinano all’umile tunica del Salvatore; l’Evangelista non ardisce alzare lo sguardo sul Cristo e ne bacia un lembo dell’abito rosso, come se non fosse degno di avvicinare le labbra al manto blu scuro che simboleggia il mistero della vita divina”.

Naturalmente vale, come per tutti i giochi, la libertà di scelta sulle opere da prediligere da parte di ognuno di noi. Ma è un gioco che in questo momento vale la pena fare per aiutarci a superare questo terribile periodo dove rischia di prevalere la tristezza e non la bellezza.

Paolo Zaghini