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Ma fin dove dove arrivava la Linea Gotica?


10 Settembre 2018 / Paolo Zaghini

Franco e Tomaso Cravarezza: “Le grandi battaglie della Linea Gotica” – Edizioni del Capricorno.

“Per gli italiani la Linea Gotica rappresentò la drammatica prosecuzione della guerra sul territorio nazionale per quasi un ulteriore anno dopo la liberazione della capitale. Ancora oggi viene ricordata a livello nazionale, non solo per le battaglie tra alleati e tedeschi, quanto soprattutto per il forzato allontanamento dalle proprie case delle popolazioni dell’area, per i bombardamenti e le violenze della guerra che coinvolsero una larga fascia del territorio tosco-emiliano e per le efferate stragi di civili che vi ebbero luogo, ben più tragiche che sulla Linea Gustav [quella di Cassino], anche per il diverso e più determinante ruolo della Resistenza lungo e sul tergo della Gotica”.

Il libro che il generale Franco Cravarezza e il figlio Tomaso, anche lui ufficiale e appassionato di storia, dedicano alle vicende della Linea Gotica è fondamentalmente un libro di storia militare che racconta soprattutto le operazioni tra grandi unità militari regolari delle varie forze armate nazionali.

Gli Autori pagano un pegno di gratitudine alle ricerche e ai volumi di Amedeo Montemaggi (1923-2011), e ringraziano sua moglie Edda per l’aver messo a disposizione le carte conservate presso il Centro Internazionale Documentazione Linea Gotica da lui fondato.

Ma il libro solleva in noi piccoli studiosi del tema alcune questioni di non poco conto: per gli autori le battaglie sulla Linea Gotica sono tutte quelle avvenute dopo l’agosto 1944, sino all’aprile 1945, alla Liberazione del nord Italia. Praticamente il libro racconta della prima fase (fine agosto-dicembre 1944) quando gli Alleati arrivarono nei pressi di Bologna e qui si fermarono; le operazioni invernali (gennaio-marzo 1945); l’offensiva di primavera (aprile 1945).

Per noi, sul versante Adriatico, le vicende della Linea Gotica sono invece sempre state legate agli scontri militari della prima fase, la più cruenta, che portarono alla liberazione delle città della Romagna ma non del resto del Nord Italia. Per il dopo, fino a quando si deve continuare a parlare di Linea Gotica?

Non ho una risposta certa, ma la citazione in apertura del volume dello studio-progetto di Invitalia presentato a Roma nel 2012 e finanziato dal Ministero per lo sviluppo economico dal titolo “Azioni di sistema volte alla valorizzazione del potenziale territoriale in chiave turistico-culturale della Linea Gotica” mi lascia molto perplesso.

Questa operazione servì ad estendere la Linea Gotica oltre i siti naturali degli eventi e al di là che non portò a nulla (se non forse qualche beneficio economico per gli estensori di un progetto nato morto per la contrarietà di gran parte dei soggetti che ne dovevano essere interessati), certamente creò una gran confusione sui territori che dovevano essere inclusi nel perimetro dei combattimenti della Linea Gotica.

Alla fine di agosto del 1944 il generale Harold R. Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia, lanciò l’offensiva contro la Linea Gotica tedesca, un fronte di oltre 300 chilometri che dalle Alpi Apuane raggiungeva la costa adriatica tra Rimini e Pesaro.

Circa 900.000 uomini (fra inglesi, canadesi, americani, polacchi, greci, italiani), 3.000 carri armati e 5.000 aerei vennero sferrati contro i tedeschi, dal Tirreno all’Adriatico. I tedeschi, al comando del maresciallo Albert Kesserling, potevano contare invece su circa 200.000 uomini, nessun aereo e pochissimi carri armati.

Sui due fronti combattenti di oltre venti nazionalità diverse. Una linea di difesa che Kesserling utilizzò con maestria per contrastare l’offensiva angloamericana di Alexander e di Clark verso la pianura padana. Uno scontro spietato, combattuto con ogni mezzo e astuzia militare, che coinvolse centinaia di migliaia di soldati, ma anche i partigiani e le popolazioni locali.

Ai primi di settembre gli Alleati entravano in Romagna, a Cattolica e a Montegridolfo, travolgendo le difese tedesche, che però seppero riorganizzarsi a Riccione e a Coriano, imponendo ai soldati inglesi per alcune settimane pesanti perdite e l’arresto dell’avanzata. Rimini verrà raggiunta e liberata solo nella mattinata del 21 settembre dalle truppe greche. Montemaggi ha scritto che la battaglia di Rimini può essere considerata “la più grande battaglia di mezzi mai combattuta in Italia”.

Di grande interesse le considerazioni della Commissione Italiana di Storia Militare riportate, apparse nel 1996 nel volume “L’Italia in guerra. Il sesto anno – 1945” sulle vicende della Linea Gotica: “Sul piano prettamente tecnico-militare, si deve rilevare che la pianificazione alleata fu influenzata da una fondamentale sopravvalutazione delle possibilità proprie e della sottovalutazione di quelle dell’avversario (…). Dal complesso di situazioni e contrasti fra gli Alleati derivano i caratteri di incertezza e di relativa inefficienza con cui fu condotta la campagna d’Italia (…). Le divisioni impegnate in Italia non sarebbero state infatti determinanti per il capovolgimento della situazione sul fronte orientale prima di giugno ’44, mentre per la fase successiva allo sbarco in Normandia hanno permesso di calamitare in un settore comunque difendibile un elevato numero di unità e di risorse alleate che avrebbero diversamente influenzato gli eventi. Il risultato positivo è comunque indicato dall’esito finale, cioè dal fatto che nel settore i tedeschi sono riusciti a contenere l’avanzata anglo-americana fuori dal proprio territorio sino a quando la lotta è giunta al termine anche sugli altri fronti (…). Per ambo le parti fu insomma l’occasione, il luogo, il modo di incontro e di scontro, non decisivo, con vantaggi e svantaggi sui quali si può discutere a lungo; per l’Italia fu la tragedia che tutti sappiamo”.

Sempre la Commissione di Storia Militare: “Gli angloamericani consideravamo l’Italia settentrionale zona di operazioni e come tale soggetta esclusivamente alla giurisdizione dei loro comandi militari; il governo e i comandi italiani non vi dovevano avere alcuna voce in capitolo”.

L’Autore sintetizza: “gli Alleati, ed in particolare gli americani” avevano “la visione strategica di un fronte italiano sussidiario agli altri, dove si dovevano immobilizzare forze tedesche e sottrarle all’impiego in aree più critiche”.

I Tedeschi invece seppero attuare una strategia di difesa efficace: “Nonostante l’esaurimento implicito della maggior parte dei soldati tedeschi per l’anno di logoramento lungo l’Italia, i difensori continuarono a battersi come leoni anche quando avevano ormai ceduto sulla displuviale appenninica (…). Si deve dar atto del loro valore individuale e dell’efficienza tattico-operativa dei loro reparti, specie di quelli di minore entità, che seppero agire con grande autonomia ed elevata efficacia in tutti gli ambienti sia di montagna sia di pianura”.

“Per tutti i reparti tedeschi, ma anche per molti alleati, è impressionante il numero di battaglie successive, sempre uguali nella brutalità intrinseca della violenza del dare e ricevere la morte, affrontate in quei venti mesi”. Nella Campagna d’Italia gli Alleati subirono oltre 300.000 perdite e i tedeschi oltre 500.000 tra morti, feriti, prigionieri, malati ricuperabili e invalidi.

Interessante infine la valutazione fatta sulla battaglia sul fronte Adriatico, in particolare sugli scontri a Gemmano e a Coriano: “uno degli esempi più riusciti delle procedure operative tedesche della ‘difesa mobile’, che mirava a economizzare le forze senza seguire i principi tattici in vigore alla vigilia del conflitto, che avrebbero richiesto una disponibilità molto superiore a quella del momento, e rispondeva al criterio di ‘perdere terreno ma non di perdere soldati’ attraverso la difesa attiva e la tattica delle linee”.

Gli Autori mettono in rilievo anche il contributo del rinato esercito italiano all’avanzata lungo l’Adriatico, alle operazioni nel Ravennate e all’offensiva di primavera del 1945. Vi presero parte i Gruppi di Combattimento del Corpo italiano di liberazione, la Brigata Maiella equipaggiata dagli inglesi, mentre i partigiani continuavano a minacciare le linee di comunicazione dietro il fronte, insistendo a restare in montagna nonostante il proclama di Alexander che gli intimava di abbandonare la battaglia.

Paolo Zaghini