HomeIl corsivoQuel ponte che la Soprintendenza riuscì a bocciare e approvare simultaneamente


Quel ponte che la Soprintendenza riuscì a bocciare e approvare simultaneamente


26 Ottobre 2019 / Nando Piccari

Non ci sono più parole per irridere l’annuale esercizio di demenza statistica a cui per l’ennesima volta, nei giorni scorsi, s’è lasciato andare il Sole 24 Ore, che presto verrà inevitabilmente seguito da Italia Oggi.

Per quei due fighettosi quotidiani, Rimini avrebbe oramai consolidato l’irreversibile titolo di vice-capitale italiana del crimine e del malaffare, al cui confronto risulterebbero ben più affidabili e sicure perfino Napoli, Palermo, Caserta e “compagnia sparante”.

Tutto questo perché la loro scienza statistica si esaurisce nella peregrina convinzione che il tasso di sicurezza di un singolo territorio sia inversamente proporzionale al numero di denunce che vi vengono presentate alle autorità preposte.
E dal momento che in molte zone d’Italia denunciare un “fattaccio”, non al capo mandamento ma a polizia e carabinieri, fa correre il rischio di vedersi bruciare l’auto o il portone di casa, ecco che allora, con buona pace di Saviano, secondo il Sole 24 Ore si vive più sicuri a Scampia che a Miramare.

Come se non bastasse, poiché a far testo è il coefficiente ricavato dividendo il numero delle denunce per quello degli abitanti, nel calcolare quello riferito a Rimini, i nostri “statistici per caso” si limitano a considerare i soli suoi residenti in pianta stabile, incuranti dell’esorbitante quantità di turisti che vi si aggiungono durante l’anno.

Per questo era da tempo che anche nella componente più becera della destra riminese non vi fosse più chi se la sentisse di continuare a fare la figura del frescone, fingendo di dar credito a tanta paccottiglia giornalistica.

Senonché s’è registrata una novità dell’ultima ora: a dare eco a quella “statistica per ridere”, dopo l’ultimo exploit del Sole sono tornati fuori i leghisti locali, oggi “vedovi Salvini”.

A tromboneggiare più di tutti è stato, come sempre, l’immigrato capetto della Lega al Consiglio Comunale di Rimini, per il quale è naturalmente tutta colpa di Gnassi, ma anche Questore e Prefetta dovrebbero darsi da fare di più. Quando però la Prefetta, al pari dei suoi predecessori maschi, ha replicato mettendo i puntini sulle i, quell’ardimentoso s’è precipitato a genuflettersi, inviando una notarella di scuse al Carlino, che l’ha relegata nella “pagina della palazzola”, insieme alle farmacie di turno.

Non c’è che dire: sono davvero patetici questi legaioli che non perdono occasione di piangersi addosso nel mentre ci ricordano cosa abbiamo perso in sicurezza, ora che il loro boss non si divide più fra qualche rara capatina al Viminale, a godersi la sofferenza di tanti poveri disgraziati lasciati a languire in mare, e le nottate al Papeete, a godesi la vista del sedere delle cubiste.

Dubito però che Salvini sia il buzzurrone che sembra, per cui credo non voglia farsi guardar dietro dai suoi amici di Casa Pound e dal restante lordume neo-fascista, accorsi una settimana fa in Piazza San Giovanni, ad omaggiare lui, la cameratessa ingrugnita Meloni e quel che resta di Berlusconi (che quando lo vedi e lo senti, non capisci più se sia lui o la caricatura che ne fa Crozza).

Volendo, Salvini avrebbe l’occasione di ricambiare la cortesia proprio domani, 27 ottobre, aggregandosi alla moltitudine di repellenti guitti che accoreranno a Predappio, ad omaggiare il sordido caporione che con la presunta marcia su Roma diede inizio all’infame ventennio. Colui dal quale Salvini sta volentieri prendendo a prestito la truculenta comicità di talune sue frasi rimaste celebri, nonché l’oratoria e la mimica davanti ai microfoni, in particolare quando invoca i pieni poteri.

In attesa che Salvini completi dunque il suo percorso “ducesco”, benedetto da Putin, accontentiamoci delle due sole forme dittatoriali al momento esistenti in Italia.

Una si rifà a Bankitalia, che con poche regole “scritte e fisse”, affiancate da tante altre “narrate e fluttuanti”, se vuole può imporre dall’alto i suoi voleri, decidendo in solitudine i destini di banche e risparmiatori, incurante delle ricadute sociali che questo comporti.

L’altra, più piccolina ma all’occorrenza comunque nefasta, la esercitano le “Sovrintendenze a qualcosa”, per le quali l’intangibile primato dei “convincimenti ad personam” dei loro burocrati (spesso a capocchia o magari su input di qualche “Italia Loro”) prevale sulle normative regolarmente e democraticamente assunte dalle Pubbliche Istituzioni elettive.

Non ci sono parole per commentare la cervelloticità dell’ingiunzione di queste ore, finalizzata a massacrare a Rimini centinaia di spazi all’aperto di pubblici esercizi (i famosi Dehors), allestiti non in modo abusivo, ma secondo regole a suo tempo fissate dal Comune e per di più – udite, udite! – con l’allora assenso della Sovrintendenza stessa, che nel frattempo ha però cambiato idea (succede a tutti, no?).

Ma a rendere ancora più grottesco quel vero e proprio arbitrio è la motivazione con cui i dehors vengono smantellati: non definitivamente, ma solo nei mesi invernali, quando a detta del meteo-sovrintendente «la città deve respirare».
Insomma, un’apnea di otto mesi all’anno la Sovrintendenza può anche tollerarla, poiché le bastano i restanti quattro ad appagare il burocratico bisogno di ricordarci che, per quanto inutilmente, essa esiste.

E se occorre minaccia anche, almeno a leggere oggi sul Corriere uno dei suoi massimi burocrati: «Un operatore può essere in regola, ma se la sua struttura ha un impatto negativo gli dobbiamo dire di no». Come dire che…dipende da come gli gira quel giorno.

Nei miei anni da Vicepresidente e Assessore provinciale al territorio ho avuto un’esperienza esilarante, allorché la Provincia dovette sostituire due ponti oramai fatiscenti. Per il primo, la Sovrintendenza aveva posto la comica prescrizione che fosse rivestito in rame, cosa che oltretutto ne avrebbe fatto lievitare a dismisura il costo. Per il secondo successe di peggio.

Poiché il corso d’acqua in questione segnava il confine fra due Comuni, entrambi approvarono lo stesso, identico progetto e, come d’obbligo, lo inviarono alla Sovrintendenza per il parere vincolante.
Lo so che ora voi non mi crederete, ma giuro che andò così! Dallo stesso ufficio pervennero due opposte decisioni: assenso ad un Comune, diniego all’altro.

La cosa sortì però un effetto positivo. Bastò infatti far sapere che sulla vicenda si sarebbe potuto fare un po’ di ironico can can, perché al primo ponte…manchi ancor oggi il rivestimento in rame.

Nando Piccari