Quando a Rimini in via Balilla il cantore del mondo si chiamava Raffaele Russo
23 Settembre 2023 / Enzo Pirroni
Avrò avuto dodici anni e la mia fantasia era in subbuglio perché ero preso completamente dalla lettura. Leggevo in classe durante le ore di lezione, al momento dei pasti, di notte fino a tarda ora. Per i libri trascuravo la scuola, le nuotate al mare con i compagni, i piccoli doveri domestici. Nelle pagine di quei volumi rinvenivo quel mondo meraviglioso ed intricato per intendere il quale occorreva aprirsi la via attraverso un’irta boscaglia di segni, di frange interpretative, un mondo che per me si è sempre rivelato più completo ed articolato di quella che normalmente viene considerata la realtà.
Una volta, nel Bar di Baròl, all’incrocio di via Pascoli con via Lagomaggio, alcuni giovanotti discutevano di sport rievocando la recente impresa di Charly Gaul, sul monte Bondone, al Giro d’Italia del 1956. Il loro discorso era sciatto, amorfo, sbreccato. Le immagini da essi rievocate parevano compresse in una realtà parziale, come respinte agli orli dalla marea della storia. Mi introdussi nella conversazione e raccontai il dramma vissuto da Pasqualino Fornara, la maglia rosa, che, sfinito dalla fatica, semicongelato cadde più volte e dissi di come il di lui direttore sportivo, il buon Giumanini, con le lacrime agli occhi, facendosi strada tra gli ammassi nevosi, nel gelido aere lattiginoso, avesse sequestrato la bicicletta al proprio corridore, imponendogli il ritiro.
Raccontai di Magni; della sua determinazione; delle contorsioni e degli spasimi dolorosi provocatigli da una clavicola fratturata e ci misi dentro anche i vecchi campioni: Trueba, Aymo, Bottecchia, Belloni, Girardengo, perché mi pareva giusto che in quell’inferno di ghiaccio, “un luogo che par gelo \ che avea di vetro e non d’acqua sembiante”, ci dovessero, necessariamente stare per conferire maggior dignità a quella lugubre sceneria di gelida disperazione. Altri avventori, nel frattempo, si erano avvicinati ed ascoltavano le storie che andavo raccontando con tanta partecipazione e tanto trasporto.
A dodici anni deliravo per il ciclismo ed ero arso dalla sete di sapere. Per mia fortuna, in via Balilla, al numero 32, all’interno di uno di quei “palazzoni”, costruiti nell’immediato dopo guerra, la cui immiserita spettralità sembrava partecipare perennemente di tutte le macilenze, di tutte le estenuazioni che in quei poveri tempi attossicavano le impotenti esistenze della poveraglia riminese, abitava Raffaele Russo.
Era, allora, costui un uomo di circa trent’anni. Non ho mai capito cosa facesse per vivere. Passava la maggior parte del tempo in casa, indossando un pigiama, in compagnia della madre, un’attempata, corpulenta veneziana, che tutti, rispettosamente, chiamavano: signora Testi. Non ho più ascoltato, anche nei tanti anni successivi, storie maggiormente avvincenti di quelle raccontate da Raffaele. A suo dire, aveva viaggiato tutto il mondo, conosceva non so quante lingue, era passato attraverso mille avventure e me le raccontava con estrema precisione, sottolineando gli accadimenti storici, i dettagli cronachistici, per tuffarsi poi, soavemente, nell’inverosimile ed approdare, infine, nello sconfinato mondo del fantastico.
Si aveva l’impressione che anche tutto ciò che lo circondava diventasse, per incanto, il frutto di un avanzo di immaginazione. I suoi racconti andavano a comporre una ballata. Ogni personaggio, da quelli che scaturivano dalla di lui inventiva a quelli che popolavano le pagine dei libri che di volta in volta mi invitava a leggere, aveva dietro di sé una propria storia e tutti si trovavano a vivere una situazione, nella quale, i destini del singolo si intrecciavano con quelli del gruppo. Gli eroi si incontravano partecipando, continuamente, ad un immenso, mitico banchetto incentrato su un unico, esclusivo cibo: l’immaginazione.
Ricordo ancora i lussureggianti tomi editi dalla “Scala d’oro” o dal “Carroccio”, sui quali si sono nutrite le fantasie di tanti fanciulli che, in un’epoca priva di televisione, potevano perdersi nei racconti di avventura, vagare per terre lontane, seguendo un’improbabile, per quanto fascinosa nomenclatura geografica. Raffaele, con immensa gioia di mia madre, mi inondava di libri. Si trattava di edizioni nelle quali capolavori come “L’Orlando Furioso”, “I tre Moschettieri”, “L’Isola del Tesoro”, erano sunteggiati, purgati, semplificati senza pietà o esitazione alcuna.
Bastava, in genere, che avessi poche linee di febbre, due giorni passati a letto, perché mia madre corresse alla Libreria Riminese (lei si ostinava a dire da Mazzini), dal signor Bresciani (tanto gentile e dabbene che assomigliava come una goccia d’acqua al dottor Monti, amico di suo padre), per tornare entusiasta e felice con il volume bravamente incartato: “E’ per te – mi diceva – più tardi, se vuoi, lo leggiamo insieme. E’ “Robinson Crosue”. Me lo donava ed in quelle occasioni la vedevo felice.
Il gracile bozzolo della sua grigia esistenza pareva spezzarsi d’incanto, la baraonda tormentosa del vivere, la banalità quotidiana nella quale era costretta, le caligini di un’intera vita avara di gioie, si dissolvevano, sparivano e lei, mia madre, tornava ad essere quella allegra, bellissima ragazza che io avevo visto ritratta nelle plioceniche foto color seppia della sua giovinezza. La prima racchetta da tennis la vidi in casa di Raffaele. Era una Dunlop “Maxply” con le corde di budello. Imparai a conoscere i nomi di Cuccelli, Merlo, Del Bello, Pietrangeli, Sirola, Gardini. Per quanto tempo sognai il verde prato di Wimbledon, sul quale Raffaele, aggrappandosi disperatamente al proprio servizio, cercava di vincere, al quinto set, il match della sua vita che lo vedeva opposto, nel 1950, al terribile australiano Sidwell?
Fu sempre Raffaele a raccontarmi le gesta del “grande Torino”, a dirmi delle maniche rimboccate di Valentino Mazzola, della diabolica scaltrezza di Guglielmo Gabetto, delle enormi mani di Valerio Bacigalupo, il portiere della squadra granata perita nel rogo di Superga. Credo di essere uno dei pochi a sapere che la marca delle biciclette “Torpado”, nasce dall’unione delle prime lettere dei nomi del proprietario della fabbrica, Torresini e della città dove le biciclette si costruivano, Padova. Anche questo lo appresi da Raffaele. Recentemente, in un muffito e decrepito armadio tetramente annerito da lunghi anni di oblio trascorsi in un’umida, cloacosa cantina, ho trovato, mischiato a tutti i detriti, ai rottami, alle vili reliquie di rigatteria, un libricino di fiabe intitolato: “Capitano, oh mio capitano!”.
L’editore, un certo Lo Monaco, lo aveva fatto stampare a Napoli nell’anno 1957. L’autore: Raffaele Russo. Riprendendolo tra le mani dopo tanti anni, mi è parso normale perdermi in quel labirinto, per me agevolissimo, di fulgurazioni ed intuizioni fantasiose e come i topi della fiaba Il pifferaio magico, mi sono lasciato condurre, inebriato dalla dolce malia di quella ri-lettura che mi portava, ormai vecchio, verso la realtà di un universo immaginario.
All’interno quattro “storie” i protagonisti delle quali sono bambini. Bambini immersi nella fragilità dei loro sogni, bambini che grazie alla loro inconsapevole, umile gioia riescono a vincere il male, ad ammollire la solitudine umana, a trasformare il dolore in tripudio. In una di queste c’è il piccolo Gyorgy, che mogio, col suo piedino storpiato dalla poliomielite, osserva con invidia i coetanei che sul prato del Ferencvaros di Budapest danno la stura, rincorrendo il pallone di cuoio, a tutta una ebbra clownerie di girandole prestipedigitatorie, di fanfaronate, di dribbling inutilmente gratuiti, mentre, fasciati nelle aderenti maglie rosse, se ne vanno boriosi per il terreno di gioco, simili a figurette su molle, vesciche vuote ma tronfie di vento. Avviene che un giorno, il vecchio allenatore del Ferencvaros, Sandor Sarosi, spinto dalla compassione, inviti il piccolo Gyorgy ad entrare in campo per giocare con gli altri ragazzi.
L’iniziale incredulità dei giovani atleti, dopo pochi minuti si trasforma in stupore. Il piccolo Gyorgy non solo tratta il pallone da dio ma allorché l’arbitro fischia un calcio di punizione contro la squadra avversaria, egli, incaricandosi del tiro, colpisce il pesante cuoio con l’esterno del suo piedino menomato. La palla così calciata intraprende una parabola malignamente subdola che, dopo aver aggirato la barriera, si insacca all’incrocio dei pali della porta difesa, nientemeno che dall’insuperabile Grocsis.
In quel preciso momento è nato il “tiro all’ungherese”. Inutile, a questo punto, svelare il finale. Poi, proprio come i personaggi delle fiabe Raffaele sparì. O forse, più semplicemente lo perdetti di vista complice la mia distratta, faticosa giovinezza odiatrice di ogni formalismo e di qualsiasi espressione consueta. Solo in seguito (nel frattempo ero andato ad abitare altrove) venni a sapere che Raffaele Russo viveva a Mestre. Si era sposato, aveva avuto figli e occupava un posto dirigenziale presso una grande compagnia di assicurazioni.
Negli anni in cui insegnai nel Veneto (erano i primi anni 70), cercai di mettermi in contatto con lui, ma una volta per una ragione, una volta per un’altra, non riuscii ad incontrarlo. Seppi in poi che un infarto lo aveva stroncato, poco più che cinquantenne. Credo che a Rimini siano in pochi a ricordarlo. Di lui parlavo talvolta con il professor Gino Leoni che in gioventù gli era stato amico. Ancora oggi, che della vita e del mondo so cose che (mio malgrado) vanno ben oltre la dimensione favolistica trovo giovamento nel raccattare codeste briciole di luccicanti ricordi. Mi capita di riflettere sulla semantica e sul simbolismo di quei bellissimi racconti fintanto che, la diafana fragilità di quei rimandi lontani, unita all’incalzante malsanìa dell’età, mi induce a pensare ad altro, ad altro che non sia disgiunto da un’ansia bruciante di vita.
Sono sicuro, tuttavia che Raffaele sapesse, con certezza se Bob Deans, il flanker degli All Blacks neozelandesi, il 16 dicembre 1905, a Cardiff, aveva segnato o no la meta ai Gallesi. Mi sono recato in quel santuario del rugby ed avrei voluto raccogliere un ciuffo d’erba, proprio nel punto dove, come disse Deans sul letto di morte: “I did score at Cardiff” e avrei voluto posarlo sulla tomba del mio caro amico. Ha senso chiedersi dove inizia il sogno e dove finisce la realtà? Non lo so. Certo che su questo discorso potremmo andare avanti per chissà quanto tempo ancora.
(Nell’immagne in apertura: Raffaele Russo impegnato in un incontro di tennis, fine anni ’50 a Cervia)