Sto cercando di capire perché la notizia dell’imminente restauro del tempietto di sant’Antonio in piazza Tre Martiri mi mette così di buon umore. Non sono particolarmente devota del santo lusitano-romagnol-padovano (spero che questo non lo offenda, aveva un certo caratterino) e nemmeno dell’architettura barocca di cui l’edificio è un pregevole esempio. E la prospettiva di vederlo impacchettato per diversi mesi in uno dei luoghi più rappresentativi e scenografici della città non mi esalta più di tanto. Però il fatto che gli saranno dedicate cure e attenzioni e che a fine 2024 lo rivedremo in forma smagliante mi scalda stranamente il cuore, come come se a un mio vecchio amico fosse capitata una bella cosa. Sono felice per lui.
Si può voler bene a un monumento, al di là del suo valore storico-artistico? Evidentemente sì, e me ne rendo conto solo adesso – meglio così, perché di solito ci accorgiamo di quanto eravamo affezionati a certi aspetti del paesaggio urbano solo quando spariscono.
Da quando vivo a Rimini, il tempietto presidia quell’angolo della piazza, dirimpetto all’edicola dei giornali che, a ben vedere, nell’aspetto gli fa un po’ il verso, e sembra la sua versione più umile e laica. Secondo la tradizione, la cappelletta nel luogo dove nel 1222 o 1223 avvenne il miracolo della mula: l’animale apparteneva a un certo Bonvillo, esponente della comunità degli eretici patari, allora così fiorente da richiedere l’intervento del super-predicatore Antonio.
Dopo aver convertito i miscredenti della zona mare con la prodigiosa predica ai pesci alla foce del Marecchia, il futuro santo si accingeva ad affrontare le anime prave del centro storico, capitanate dall’impudente Bonvillo. Costui, forse ispirato dalla storia dell’asino di Buridano, lanciò pubblicamente una sfida al frate: se la sua mula avesse preferito l’ostia consacrata al fieno lui si sarebbe convertito. Quando le furono presentate le due opzioni, la povera bestia piegò subito le zampe davanti all’ostia (forse c’entrava qualcosa anche il fatto che il suo padrone, per assicurarsi la vittoria, l’aveva preventivamente tenuta a digiuno, e la povera bestia non si reggeva in piedi). Bonvillo e gli eretici di città tornarono sulla retta via, e quando sant’Antonio divenne uno dei patroni di Rimini sul luogo del miracolo venne in seguito eretta una cappella, affidata a una confraternita di artigiani tessili.
Il tempietto cinquecentesco fu distrutto da un terremoto e ricostruito nel Seicento, e in questa versione elegante e leggiadra ha attraversato i secoli ed è passato indenne attraverso i bombardamenti. Ha fatto anche lui la sua resistenza, a pochi passi dal luogo del sacrificio dei tre martiri, e ha visto risorgere intorno a sé la città. Ancora oggi, seppure impolverato e trasandato, sorprende e incanta i turisti di tutto il mondo. Se le merita o no un po’ di coccole?
Ora, una raccomandazione a chi si occuperà del restauro del tempietto: andateci piano, lasciategli un po’ della patina che il tempo e la Storia gli hanno regalato. Fategli una bella cura ricostituente, ma ricordatevi quel che diceva Anna Magnani ai truccatori che volevano mascherare le sue rughe: «non toglietemele, le ho pagate tutte care, ci ho messo una vita a farmele». Alla fine dei lavori non vorremmo trovarci di fronte a una specie di cofanetto Sperlari, tutto ghingheri e senza poesia. Le sue imperfezioni gli donano e ce lo rendono più caro, anche se è sempre lì a ricordarci che ottocento anni fa noi riminesi abbiamo preso lezioni di teologia dalla mula di Bonvillo. Buon Natale a tutti, eretici compresi!
Lia Celi