16 giugno 1333 – Il Papa perdona i Malatesta. Che stanno per tradirlo
16 Giugno 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 16 giugno 1333 Papa Giovanni XXII scrive da Avignone, dove risiede, una lettera al Legato di Romagna, cardinale Bertrando del Poggetto (Bertrand du Poujet, suo nipote), dove gli raccomanda di «non tenere crudi modi» con Malatesta e Galeotto da Rimini, che erano al suo servizio.
Da qualche tempo la situazione in Romagna è più ingarbugliata che mai.
I Malatesta sarebbero guelfi, ma in questo momento stanno dalla parte della Chiesa solo perché costretti. Il Papa, infatti, ha inviato in Romagna il suo Legato non solo per combattere i Ghibellini, ma anche per riportare sotto il controllo diretto della Santa Sede città e castelli affidati a propri fautori, che tendevano però a comportarsi come signori assoluti, quasi si trattasse di roba loro. E i Malatesta erano in cima alla lista, con il vasto dominio che si erano già creati fra Romagna e Marche. La famiglia è però scossa da feroci lotte fratricide come ha dimostrato l’ennesimo delitto, l’assassinio a tradimento di Ramberto, figlio di Gianciotto, da parte di Malatestino Novello, figlio di Ferrantino.
Cogliendo la palla al balzo, Bertrando fa piovere una grandine di scomuniche e bandi: chiede a Ferrantino di consegnargli il figlio omicida. Ferrantino fa orecchie da mercante, ma nell’aprile 1331 il Legato gli intima di rinunciare a ogni diritto sulla città di Rimini e sui castelli del contado. Colto alla sprovvista, Ferrantino convoca un consiglio di famiglia per ponderare accuratamente la faccenda. Prevale la posizione di suo cugino Malatesta “Antico” (che però ha in mente la sua personale ascesa al potere): lui non lo appoggerà nella lotta, meglio che consegni la città al Legato. Il che significa anche, fra l’altro, mettersi agli ordini di Bertrando che con il suo esercito di mercenari deve condurre la campagna affidatagli dallo zio pontefice.
Giovanni XXII era infatti in difficoltà da quando l’imperatore Lodovico il Bavaro aveva marciato su Roma, nel 1327. Nonostante il sostanziale fallimento della spedizione, i Ghibellini erano all’offensiva ovunque: i Visconti conquistando Pavia, Alessandria, Tortona, Vercelli, Parma e Piacenza; il signore di Verona Cangrande della Scala imperversando nel Veneto e Rinaldo Bonaccolsi detto “Passerino”, signore di Mantova, che era arrivato fino a Modena, per non dire di Castruccio Castracani che dalla sua Lucca teneva in scacco tutta la Toscana.
C’è stato anche un poetastro rompiscatole, profugo senza patria. Andava scribacchiando che nel firmamento del potere esistono due soli uguali in splendore e potenza: il sole del Papa e quello dell’Imperatore. Due poteri alla pari, dunque, non un Pontefice che aveva l’ultima parola anche su Cesare. Era un esiliato, condannato a morte in contumacia dalla sua città, Firenze. Si chiamava Dante Alighieri e il suo trattatello in latino De Monarchia era andato a ruba. Ormai è morto da 8 anni a Ravenna, altra città guelfa solo in teoria, ma Bertrando fa bruciare le copie della sua opera nella piazza a Bologna. E per confutare punto per punto quanto vi era scritto incarica il domenicano riminese Fra Guido Vernani.
Perchè la questione è ormai divenuta una grave disputa teologica fra il pontefice e i Francescani, che con Andrea da Cesena, Ubertino da Casale e Guglielmo di Ockham tendono ormai anche loro a teorizzare la parità fra Papato e Impero: sono i personaggi che compaiono ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco, ambientato proprio negli anni in cui questi temi erano, appassionatamente, all’ordine del giorno.
Non bastasse, il (pr esunto) miglior alleato del Papa, il re di Napoli Roberto d’Angiò, convoca a Genova Guelfi e Ghibellini, dicendo che quelle categorie ormai non hanno più senso. L’importante è liberarsi di questo Legato. E’ di un nuovo intruso, Giovanni I di Lussemburgo re di Boemia, che aiuta Bertrando pur di mettere i bastoni fra le ruote al suo rivale Lodovico il Bavaro. Il Papa reagisce nominando Bertrando Marchese di Ancona e Conte di Bologna. E intanto il Legato prende possesso di Rimini e vi nomina suo Vicario Arnaldo Donati, Arciprete di San Giovanni in Persiceto, il quale significativamente va ad abitare proprio nella casa requisita a Ferrantino Malatesta.
Per i Malatesta inizia una vera diaspora. Chi perché ancora inseguito dai mandati di cattura, come Malatestino Novello, chi per non prestare il servizio militare richiesto, come Ferrantino, che finisce per imboscarsi addirittura a Portobuffolé presso Treviso con la scusa di andare a trovare sua figlia Samaritana, vedova di Tolberto da Camino.
Malatestino Novello invece si arrocca a Mondaino e non c’è verso di schiodarlo da lì, anche perché riceve aiuti da Perugia, Arezzo, Fabriano e Urbino: tutte famigerate città ghibelline. Malatesta Antico e Galeotto, invece, fanno buon viso a cattivo gioco e alla fine si arriva al compromesso: Malatestino Novello in cambio dell’impunità restituisce il maltolto e il 25 maggio 1332, tramite breve pontificio, si proclama la tregua che avrebbe dovuto preludere alla riconciliazione generale.
Di qui le raccomandazioni del Papa di andarci piano con questi Malatesta: gli sono troppo preziosi in vista delle prossime imprese e l’equilibrio raggiunto è troppo fragile.
Di lì a poco, come riferisce l’anonimo “cronista malatestiano”, Bertrando decide di dare l’assalto alla ghibellinissima Ferrara «et mandoglie miser Malatesta (Malatestino Novello) et miser Galaotto contro suo volere, et tutti i caporali de Romagna, o volesse o no volesse, glie convenne andare»: e cioè, oltre ai Malatesta di Rimini, i Manfredi di Faenza, gli Ordelaffi di Forlì e i da Polenta di Ravenna. Dell’armata fanno parte anche il Gran Maresciallo di Francia, conte d’Armagnac, e ottanta “uomini d’arme” mandati dal solito re di Boemia.
Se non che ad aiutare i Marchesi d’Este, signori di Ferrara, arrivano inopinatamente mille cavalieri inviati da Cangrande della Scala, più 600 fanti viscontei di Pinalla Aliprandi, più i rinforzi da Firenze (che dovrebbe essere guelfa) e da Mantova quelli di Passerino.
È il disastro. Il composito e demotivato esercito della Chiesa viene distrutto e «annegò più de doe mila cristiani in Po». Malatestino e Galeotto cadono prigionieri e capiscono subito che dopo una tale sconfitta il potere del Legato è finito. Bertrando poi nemmeno si fa vivo per pagare i loro riscatti. È ora di cambiare partito.
Gli Estensi, i fratelli Rinaldo, Obizzo e Nicolò, si tengono in ostaggio Malatestino ma rilasciano Galeotto. Il quale si dà subito da fare. Corre a in armi Pesaro, poi a Scorticata, infine a San Giovanni in Galilea per far pace con il rientrato Ferrantino. E ancora, va a riprendersi Longiano e Santarcangelo. A dargli una mano arrivano da Arezzo 400 cavalieri del vescovo Tarlati e di Oberto di Pietramala: ghibellini della più bell’acqua, ma si è già visto quanto valgano ormai le vecchie bandiere, come diceva appunto il re di Napoli, che del partito guelfo avrebbe dovuto essere il leader assoluto. In breve i castelli del contado sono tutti nelle mani dei Malatesta. Manca solo Rimini.
I ribelli si ammassano presso S. Maria di Belverde (ci passava l’odierna via Ca’ del Drago, da via Montescudo a S. Martino Monte l’Abate), mentre arrivano altri mille fanti e cento cavalieri da quella ultra-guelfa Bologna che l’anno dopo caccerà Bertrando a furor di popolo, radendo al suolo il sontuoso forte Galliera da lui voluto; oggi è il parco della Montagnola.
Brandaligi Gozzadini, il bolognese capitano di Bertrando, è ormai in trappola con le sue truppe dentro le mura di Rimini. E le sue ore sono contate.
(Nell’immagine di apertura, Jacques Duèze, o d’Euse, Papa Giovanni XXII)